Il sindacato alla prova della guerra

di NI e RdB

La precipitazione della crisi capitalista negli ultimi due anni ha portato a un approfondimento della crisi di direzione del proletariato e in generale della crisi del mondo della sinistra, lasciatoci in eredità dalle sconfitte del secolo scorso. Lo scoppio della pandemia di Covid prima e del conflitto in Ucraina oggi hanno colto impreparata la maggior parte della sinistra mondiale, incapace di saper contestualizzare storicamente la fase attuale e di porre, di conseguenza, le basi per un insediamento nella classe operaia.

L’inettitudine della politica, accompagnata da quarant’anni di sostanziale riflusso della lotta di classe, ha inciso fortemente anche sul movimento sindacale, il quale non è riuscito a creare una risposta significativa né alla pandemia né alla guerra.

La sinistra mondiale, inclusa la maggioranza del “trotskismo”, ha caratterizzato il conflitto in Ucraina come “locale”, declassando a “guerra d’invasione della Federazione Russa” una guerra imperialista di scala globale preparata negli anni e che coinvolge in maniera diretta e indiretta tutte le potenze mondiali. Questa caratterizzazione propria della propaganda di guerra agitata dalle borghesie di tutti i paesi rende, di fatto, la sinistra che la condivide una stampella dell’imperialismo. In conseguenza di ciò, ma non solo, questa è stata la narrazione predominante anche nella maggior parte dei grandi sindacati, narrazione che si è tramutata in un freno all’azione del proletariato internazionale e che condanna la classe operaia mondiale ad assistere senza possibilità di difesa alla guerra imperialista, il più grande attacco della borghesia contro di essa.

È un copione molto simile a quanto avvenuto con la pandemia, che ancora oggi viene dipinta come un fenomeno passeggero e casuale e non come un tassello di una crisi sanitaria mondiale permanente, figlia della decadenza irreversibile della società capitalista. Anche in quella situazione la maggioranza dei sindacati e della sinistra ha spinto per un ritorno alla “normalità”, facendo propria la freddezza con cui la borghesia ha portato avanti l’assassinio dei lavoratori, costretti a lavorare durante la pandemia.

In Italia abbiamo assistito a questo processo già quando CGIL, UIL e CISL hanno firmato i protocolli di sicurezza sul lavoro, frenando le lotte di fabbrica sorte spontaneamente di fronte al dilagare della pandemia e aprendo di fatto a quella che dopo due anni sarebbe stata chiamata nuova normalità. Ma anche quando all’apice del contagio buona parte del sindacalismo di base (con qualche eccezione) ha preferito dirottare la propria azione sulla difesa dei diritti individuali e delle libertà personali, per non perdere iscritti (con qualche eccezione), spingendo talvolta per la fine dello stato di emergenza.

Quanto al conflitto in corso, nei primi cento giorni di guerra, la CGIL si sta contraddistinguendo per il proprio pacifismo sterile e inoffensivo. Tuttavia, nonostante il vuoto teorico e il deserto della lotta di classe, stiamo assistendo a dei segnali, seppur deboli, di controtendenza da parte del sindacalismo conflittuale.

Lo sciopero unitario (unitario nelle adesioni, non nelle mobilitazioni) del sindacalismo di base del 20 maggio scorso è stato il primo tentativo europeo di “sciopero generale” contro la guerra in Ucraina, tra l’altro indetto in un paese di quelli che partecipano in maniera più attiva al conflitto. L’Italia, infatti, risulta essere tra i più grandi finanziatori di questa guerra: nella prima tranche di “aiuti” a marzo il governo Draghi ha stanziato un totale di 150 milioni di euro per l’invio di armi all’esercito di Zelensky. Hanno speso più dell’Italia soltanto USA, Lituania e Regno Unito.

Sullo sciopero del sindacalismo di base del 20 Maggio

Seppur non si possa parlare di vero e proprio sciopero generale, la mobilitazione “contro la guerra e l’economia di guerra” del 20 Maggio scorso ha visto coinvolte la quasi totalità delle forze del sindacalismo di base: il secondo sciopero unitario in meno di un anno, l’ultimo risaliva a ottobre dell’anno scorso. Qualcosa di impensabile negli anni precedenti la pandemia.

Partiamo dalle considerazioni positive. L’adesione unitaria (non c’è in pratica una sola sigla tra le organizzazioni rilevanti del sindacalismo di base che non si sia mobilitata il 20 maggio) è senza dubbio un segnale da rimarcare, che risponde alla necessità di un cambio di passo nel sindacalismo conflittuale, la cui divisione ha ottenuto negli anni passati, anche se in dimensioni molto più piccole, effetti simili a quelli della CGIL e delle sue strategie pacificatrici di separazione delle lotte, nefaste per il movimento operaio e di ostacolo a qualsiasi tentativo di risveglio della lotta di classe. Come secondo fattore di notevole importanza c’è la piattaforma rivendicativa di questo sciopero. Sebbene con accenti di diversa intensità, e sicuramente senza una seria riflessione sullo stato di crisi del sistema del capitale (a partire dalla crisi dell’imperialismo yankee) e sul processo storico di restaurazione capitalista in Russia e in Cina, è stata centrale l’opposizione alla NATO, riconosciuta come attore principale del conflitto in corso (e di quello che si prepara in futuro). Inoltre è stato il vero filo conduttore di tutte le manifestazioni di quella giornata la denuncia dell’imperialismo di casa nostra, con l’opposizione netta (non mistificata e celata come quella di alcune organizzazioni della sinistra sedicente rivoluzionaria) all’invio di armamenti a governo ed esercito (tragicamente chiamati “resistenza”) ucraini. Lungi dalla lettura di questo conflitto come locale e riguardante solo l’invasore russo e l’invaso ucraino, è stato riconosciuto il carattere internazionale e imperialista della guerra, ribadendo correttamente che le realtà di classe e quelle che pretendono di dirsi rivoluzionarie non hanno “mali minori” per cui tifare (in quelle guerre che non hanno alcun carattere progressivo per le masse su entrambi i fronti) ma solo la necessità di combattere con le armi dell’internazionalismo proletario. Infine è stato sottolineato quanto essenziale sia collegare la campagna contro la guerra anche alla mobilitazione sulle sue conseguenze nelle condizioni materiali e di vita delle classi lavoratrici, a partire dal carovita.

Veniamo però anche alle note dolenti. Perché i limiti ereditati dalla storia del sindacalismo di base, il cancro dell’autoreferenzialità e del settarismo strategico continuano a incidere sui risultati finali. Se, infatti, la partecipazione finale è stata unitaria, della costruzione non si può dire altrettanto, tra adesioni arrivate in ritardo da parte di USB o Confederazione Cobas, e il totale immobilismo delle varie opposizioni CGIL (solo la corrente Riconquistiamo Tutto ha dichiarato il suo appoggio, anche se più che altro formale e a pochi giorni dal 20 maggio). Di conseguenza, i numeri dei lavoratori che hanno incrociato le braccia sono stati più o meno i soliti. A dirla tutta, nei vari cortei cittadini lo sciopero non è riuscito ad andare oltre il coinvolgimento delle solite migliaia di militanti e lavoratori in larga maggioranza iscritti ai sindacati di base. In particolar modo, come sempre, e in questo sta la responsabilità più grande del mancato collegamento con i lavoratori conflittuali presenti in CGIL, non si è riscontrata una partecipazione significativa del proletariato di fabbrica.

Le grandi città sono tutte state coinvolte nelle mobilitazioni: Roma, Milano, Napoli, Palermo, Cagliari, Bologna, Torino, Venezia, Genova, Firenze. Nonostante lo sforzo messo in campo sia certamente da apprezzare, in alcune città sono stati organizzati momenti di lotta separati, divisi per sigle sindacali, le quali hanno composto addirittura alleanze organizzative diverse per territorio.

Dallo sciopero di ottobre ad oggi l’andamento è stato lo stesso di sempre, con le dirigenze dei vari sindacati intente a curare il proprio orticello, incapaci anche solo di sfruttare tatticamente l’appuntamento dello sciopero generale di dicembre indetto da CGIL e UIL. Noi non vagheggiamo di fantomatiche e irrealistiche unificazioni a freddo dei vari sindacati di base e conflittuali ma riteniamo irresponsabile nei confronti dei lavoratori e della loro lotta non costruire momenti di mobilitazione unitaria (nelle differenze) in occasione di qualsiasi sciopero e manifestazione contro la catastrofe bellica.

Il pacifismo della CGIL

Di fronte alla guerra, il ruolo pacificatore e di freno alla lotta di classe svolto normalmente dalla CGIL assume un carattere più grave che in “tempi di pace”.

Come era facile aspettarsi, in casa CGIL nei comunicati di questi primi mesi ci si è fermati alle categorie invaso-invasore per spiegare la natura del conflitto. Categorie che, se decontestualizzate dal quadro storico, finiscono per fare il gioco dell’imperialismo. Non è un caso che, finora, non sia mai stata presa in considerazione a Corso d’Italia l’idea di uno sciopero generale contro la guerra.

La guerra imperialista è stata, infatti, liquidata in maniera semplificatoria come una “criminale aggressione della Russia di Putin all’Ucraina” [1], come un attacco di Putin alla democrazia, mentre il ruolo della NATO e della UE nel conflitto diventa un “tentativo di sovrapposizione politica” [2]. Tuttavia, anche internamente al sindacato stesso e ai propri apparati esistono punti di vista che superano le narrazioni limitate tracciate dai comunicati ufficiali che stanno venendo fuori negli incontri organizzati sui territori. Per esempio, nell’evento “Fermiamo la guerra” tenutosi a Roma il 9 giugno organizzato da Fiom Lazio è stata data voce anche a posizioni apertamente in opposizione all’asfissiante propaganda di guerra portata avanti da governo e pennivendoli, opinionisti e “intellettuali” di corte, e talvolta è stata messa in evidenza anche la necessità di una mobilitazione dei lavoratori [3]. Inoltre, a differenza della CISL (il sindacato cattolico che non partecipa neanche alle manifestazioni per la pace), la CGIL si è schierata ufficialmente, come i sindacati di base, contro l’invio di armi e in generale contro le politiche di riarmo, in nome, però, della retorica pacifista secondo cui la guerra non si ferma alimentando la guerra, ma attraverso la diplomazia. Infatti, tra le soluzioni per cui spinge il sindacato di Landini c’è “una nuova conferenza internazionale di pace, sul modello di Helsinki del 1975, per intraprendere la strada del disarmo, della coesistenza e di un nuovo multilateralismo”. Il problema è che la situazione attuale rispecchia proprio il fallimento dei trattati di Helsinki, come manifestazione del collasso inevitabile delle relazioni internazionali costruite dell’economia capitalista nell’epoca della sua decomposizione storica.

Le utopie di un “capitalismo della cooperazione”, dell’integrazione pacifica del mercato mondiale, della pace tra le classi, sono le menzogne dietro cui la dirigenza della CGIL cela il proprio opportunismo e paralizza il potenziale rivoluzionario della classe operaia. Nel nuovo percorso “Camminiamo insieme” lanciato dalla CGIL, che porterà in piazza del Popolo un’assemblea nazionale il prossimo 18 Giugno, le parole d’ordine sono pace, lavoro, giustizia sociale e democrazia. Sulla guerra le rivendicazioni prevedono il “cessate il fuoco” e una “vera azione diplomatica” da parte dell’Unione Europea; la stessa Unione Europea che ha aumentato la spesa bellica e ha schierato le truppe ai confini con l’Ucraina; la stessa Unione Europea nata storicamente nel contesto controrivoluzionario di dissoluzione dell’Unione Sovietica che ha come tappa necessaria una nuova guerra imperialista mondiale.

Anche in tempi come questi, Landini non perde occasione di ribadire nelle sue interviste che all’ordine del giorno non c’è il superamento del sistema capitalista. Il pacifismo piccolo borghese così come le politiche di collaborazione tra le classi, eredi dirette in questo caso del PCI del compromesso storico degli anni ‘70, di fronte alla guerra mondiale e al possibile disastro nucleare assumono dei toni sempre più tragici ma anche grotteschi.

L’unico “cammino” che abbia senso fare insieme ora è quello che porta allo sciopero generale, non a elemosinare la pace ai governi guerrafondai borghesi, lasciando sullo sfondo il proletariato a contemplare l’apocalisse.

Lotta alle dirigenze, per un vero sciopero generale

La storia dell’uomo è entrata in una nuova fase in cui è diventata la catastrofe “la nuova normalità”. Il menù offerto dal capitalismo del ventunesimo secolo prevede un contesto permanente di crisi sanitaria, alimentare, ambientale e militare in cui si consuma il più grande attacco della storia mosso dalla borghesia mondiale contro il proletariato internazionale. 

Il proletariato è l’unica forza che, attraverso le armi della lotta di classe, dell’internazionalismo e della rivoluzione, può sconfiggere la guerra imperialista e liberare il mondo dalla guerra e da ogni tipo di sfruttamento. Sarà lunga. Sarà dura. Ma non esistono scorciatoie, né alcun tipo di conforto e auto-consolazione, a questa verità. La battaglia contro qualsiasi ostacolo che si trovi sulla strada del proletariato verso la sua emancipazione è un punto di partenza necessario.

La guerra imperialista in atto è il più alto livello di conflitto tra il mondo del lavoro e quello del capitale. Pertanto, un vero cambio di passo nelle organizzazioni dei lavoratori non è rimandabile. Con l’inevitabile precipitare della situazione, la battaglia contro ogni opportunismo e ogni settarismo delle dirigenze sindacali, sia confederali sia di base, assume un valore sempre più importante, diventando una necessità storica impellente per la classe operaia. L’intervento dei rivoluzionari nei sindacati e nei luoghi di lavoro diventa fondamentale per condannare la guerra imperialista e ogni compromissione del sindacato con i padroni. Come tradurre queste condanne in azione e nell’organizzazione della lotta di classe dovrà essere il cuore del dibattito internazionale di tutti i militanti rivoluzionari.

Qui in Italia, come in qualsiasi parte del mondo, la prima sfida è la costruzione di un percorso comune di lavoratori e lavoratrici che abbia come primo obiettivo uno sciopero generale che paralizzi davvero il paese; un percorso che si basi su l’indipendenza politica della classe operaia; che coniughi le esigenze economiche del proletariato e i bisogni delle masse con la necessità di sconfiggere la borghesia e tutti i suoi governi criminali e guerrafondai.

Note:

[1] https://www.collettiva.it/copertine/lavoro/2022/05/26/news/cambiare_il_presente_progettare_il_futuro-2132046/

[2] https://roma.repubblica.it/cronaca/2022/06/05/news/fermiamo_la_guerra_ucraina_palestina_giornalisti_raffaele_ciriello_shireen_abu_akleh_antifascismo_giacomo_matteotti_appuntam-352482291/

[3] 

https://www.fiom-cgil.it/net/index.php/home-eventi/9430-fermiamo-la-guerra-per-il-disarmo-la-giustizia-sociale-e-ambientale-e-la-solidarieta-tra-i-popoli

Lascia un commento