L’articolo che segue è stato presentato da Prospettiva Operaia come contributo italiano alla discussione internazionale sul tema dell’attacco che, seppur diversificato nelle tempistiche, viene portato avanti in maniera generalizzata nei confronti dei pensionati da parte dei governi capitalisti di tutti i paesi.
Seguiranno gli articoli presentati dagli altri partecipanti alla discussione, riguardanti il contesto argentino (Politica Obrera), uruguayano (Partido De Los trabajadores), cileno (Partido Obrero Revolucionario) e spagnolo (Grupo de Indipendencia Obrera).
Buona lettura!
Il tema delle pensioni ha rappresentato un fattore cruciale nella politica italiana degli ultimi trent’anni, segnati da riforme antioperaie di tagli portati avanti da governi tecnici, governi di centrodestra e governi di centrosinistra.
In Italia, infatti, il cambiamento radicale del sistema pensionistico ha attraversato una storia di riforme cominciata negli anni ’90, che si è sviluppata da un lato nel contesto di una crisi agonizzante della sinistra e di una lunghissima fase di riflusso della lotta di classe, dall’altro all’interno di cinquant’anni di storia politica ed economica del paese segnati fortemente dalla crisi del debito pubblico.
L’attuale punto di arrivo di questi attacchi è la legge Fornero, in vigore dal 2011. Questa faceva parte del pacchetto “Salva Italia”, il decreto lacrime e sangue varato dal governo tecnico Monti, volto a diminuire la spesa pubblica nel contesto economico del default della Grecia e della crisi del debito sovrano europeo.
Tuttavia, risale all’autunno scorso l’ultimo attacco alle pensioni eseguito dall’attuale governo d’unità nazionale guidato dal banchiere Mario Draghi. In quell’occasione, all’interno del pacchetto di misure antioperaie della Legge di Bilancio, presentato dopo un anno e mezzo di pandemia, fu cancellata “Quota 100”, una legge farsa del governo gialloverde 5Stelle/Lega (2019), che permetteva ai lavoratori e alle lavoratrici di andare in pensione con qualche anno di anticipo, percependo però un importo minore e lasciando intatta di fatto la riforma Fornero.
Contro la legge di bilancio, è stato indetto uno sciopero generale da CGIL e UIL, il primo dopo 7 anni. Il risultato è stato una mobilitazione frettolosa e organizzata male, a cui ha aderito circa un milione di lavoratori (il 5%), in cui sono venuti fuori tutti i limiti del sindacalismo italiano, da quello collaborazionista delle burocrazie confederali a quello conflittuale.
Nonostante “Quota 100” fosse una farsa e, di conseguenza, questo attacco non aggiunge molto rispetto a quanto avvenuto nel passato più recente, la sua cancellazione si pone in continuità con le politiche antioperaie degli ultimi anni.
Inoltre, come vedremo, queste politiche hanno contribuito a un cambiamento del tessuto produttivo e sociale italiano, i cui risultati, contestualmente alla crisi economica e alla precarietà crescente, stanno delineando i presupposti per l’esplosione di una bomba sociale.
Crisi del debito e rapina alle pensioni dei lavoratori
La storia del sistema pensionistico in Italia si può dividere essenzialmente in due fasi, la prima espansiva cominciata nel 1898 (anno in cui nacque la Cassa nazionale di previdenza), la seconda di contrazione dal 1992.
Tuttavia le radici del cambio di fase vanno ricercate dagli anni ‘70, in particolar modo dalla crisi petrolifera (1973-1976). In Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, lo Stato ha dovuto affrontare un forte aumento della spesa pubblica per sostenere le imprese e il crescente problema della disoccupazione. Questo ha portato a un forte incremento del debito pubblico (in meno di 25 anni il rapporto debito/PIL si è più che triplicato passando dal 37,1% del 1970 al 121,8% per del 1995), a cui sono seguite, dagli anni ‘80 in poi, politiche economiche di ridimensionamento della spesa corrente, di attacco a salari e pensioni e di inasprimento della pressione fiscale al fine di “riequilibrare i conti pubblici”.
Il primo attacco alle pensioni prese corpo nel 1992, con la riforma Amato (governo socialista-democristiano) che segnò un primo aumento dell’età pensionabile. A questa seguì la riforma Dini del 1995 (governo tecnico), più strutturale, dove si passò da un regime pensionistico retributivo a uno contributivo. Nel corso degli anni ulteriori tagli economici e aumenti dei requisiti di vecchiaia e anzianità contributiva per l’accesso alle pensioni furono apportati dalle riforme Prodi (1997, centrosinistra), Maroni (2004, centrodestra), Damiano – Padoa Schioppa (2007, centrosinistra), fino ad arrivare alla già menzionata Fornero del 2011.
Dopo vent’anni di riforme si è arrivato sostanzialmente a un innalzamento dei requisiti minimi per ottenere la pensione sia riguardo all’età anagrafica (passata da 60 a 67 per gli uomini e da 55 a 67 per le donne) sia all’anzianità contributiva. Il calcolo dell’importo della pensione è basato sull’ammontare dei contributi versati durante tutta la vita lavorativa e non più sulle ultime retribuzioni percepite (tendenzialmente le più favorevoli), sulla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e sulla “aspettativa di vita” al momento del pensionamento. La rivalutazione delle pensioni in pagamento, invece, non è più collegata all’innalzamento dei salari reali, ma soltanto all’andamento dell’inflazione. Inoltre, sono state poste le basi per la creazione di un sistema di fondi pensione complementari privati.
Le motivazioni con cui la propaganda borghese ha giustificato queste riforme premevano soprattutto sul fatto che a causa dell’aumento dell’aspettativa di vita il sistema pensionistico sarebbe andato incontro al collasso. Dai dati provenienti dall’analisi storica dei bilanci del sistema pensionistico italiano, però, si deduce che le prime riforme dei primi anni ‘90 erano già sufficienti a recuperare gli squilibri precedenti. Dal 1996 in poi il saldo annuale tra le entrate sotto forma di contributi e le uscite dovute alle pensioni erogate è tornato ininterrottamente in attivo. A seguito della riforma Fornero, il saldo è addirittura cresciuto superando il 2% del PIL.
Per di più nel 2020, la pandemia da Covid che ha ucciso per il 96% persone sopra i 65 anni, quasi tutte pensionate, ha portato a un risparmio ulteriore per l’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale) di 1,11 miliardi, abbassando le spese pensionistiche del decennio 2020-2029 di 11,9 miliardi. La riduzione dell’aspettativa di vita causata dal covid, tra l’altro, non ha inciso sulla diminuzione dell’età pensionabile.
A fronte di questi bilanci positivi nei conti, viene fuori con maggiore evidenza la ragione delle tante riforme che dal 1992 ad oggi hanno investito il sistema pensionistico, che consiste unicamente nella necessità da parte dei governi borghesi di di razziare i contributi dei lavoratori per pagare il debito pubblico.
Effetti sociali delle riforme del sistema pensionistico
Nel corso di trent’anni, le riforme del lavoro e delle pensioni ci hanno restituito il quadro di un paese fortemente mutato, dove sono tendenzialmente in crescita la disoccupazione giovanile e il precariato e si assiste a un invecchiamento della classe lavoratrice, che nel giro di due decadi è salita di 5 anni, come in nessun altro paese in Europa.
La classe lavoratrice italiana è la più vecchia d’Europa, con un’età media di 44 anni. Nei primi vent’anni di sistema contributivo (1996-2016), i giovani presenti negli uffici o in fabbrica sono diminuiti di quasi 1.860.000 unità: in termini percentuali nella fascia di età 15-29 anni la variazione è stata pari al -40,5%. Sempre in questo arco temporale, tra gli over 50 gli occupati, che rappresentano il 34% della forza lavoro, sono aumentati di oltre 3.600.000 unità, facendo incrementare questa corte dell’89,8 per cento.
All’invecchiamento della classe lavoratrice è legata, in parte, anche la tendenza all’aumento di infortuni e morti sul lavoro nonché malattie professionali. Questi dopo un secolo di decrescita hanno ricominciato a salire intorno al 2010. La pandemia di Covid, che colpisce in maniera letale soprattutto uomini e donne in età avanzata, ha accentuato questa tendenza, uccidendo 525 persone contagiate nei luoghi di lavoro nel 2020, un terzo delle morti totali sul lavoro avvenute nello stesso anno.
L’irrigidimento del sistema pensionistico ha contribuito in maniera determinante all’aumento dell’età media della forza lavoro e allo stesso tempo ha favorito una disequità previdenziale e una riduzione delle possibilità redistributive, riproducendo nella vecchiaia la stessa distribuzione dei redditi della vita attiva e ostacolando la possibilità di adattamenti delle prestazioni pensionistiche alle condizioni economico-sociali correnti.
La situazione attuale vede numerosi giovani che faticano ad entrare nel mondo del lavoro e tanti quarantenni ancora costretti in rapporti lavorativi precari e con remunerazioni scarse, che avranno una copertura pensionistica abbondantemente al di sotto della soglia di povertà.
Larga parte di coloro che hanno cominciato a lavorare dalla metà degli anni ’90, oltre ad essere stati penalizzati da salari bassi e saltuari nella vita attiva, nella logica del sistema contributivo lo saranno in misura corrispondente anche come pensionati.
Le donne, in particolare, risultano essere molto colpite perché più soggette a periodi di lavoro part-time nell’arco della vita lavorativa, il che porta a un versamento minore di contributi.
Il divario tra i redditi degli attivi e quelli da pensione è destinato a salire nei prossimi anni e questo pone i presupposti di una bomba sociale di cui, come abbiamo visto, già si avvertono i primi sintomi.
Fallimenti politici e sindacali sulle pensioni
Se questa fase di riforme ha segnato irrevocabilmente una sconfitta del movimento operaio, allo stesso tempo, con lo smantellamento di un sistema pensionistico maggiormente “efficiente” nel redistribuire liquidità alla classe lavoratrice, è caduto uno dei pilastri attorno a cui si era riuscita a consolidare la reazione nel secolo scorso, garantendo maggiore coesione sociale.
Nella storia delle pensioni degli ultimi anni c’è tutto il fallimento della politica, della sinistra italiana e del sindacato.
La sinistra discendente dal vecchio PCI (PDS, DS, PD), virando nel tempo sempre più a destra e diventando a tutti gli effetti il partito più rappresentativo della grande borghesia, ha partecipato in prima linea al saccheggio dei contributi dei lavoratori, ponendosi totalmente dall’altra parte della barricata.
La sinistra radicale (Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani ecc…), eternamente ancorata a logiche elettorali sebbene sia scomparsa dal parlamento da ormai quindici anni, si è limitata a tentativi fallimentari di indire referendum per abrogare la legge Fornero.
I sindacati confederali, in particolare la CGIL, che tra i pensionati conta 2 milioni e mezzo di iscritti, non hanno portato avanti nessuna lotta duratura, ponendosi passivamente in complicità con i governi antioperai e le loro rapine nei confronti della classe. Contro la Fornero, fu indetto uno sciopero di poche ore che non arrivava a mezza giornata di lavoro.
Le opposizioni interne alla CGIL si sono limitate a una critica puramente letteraria nei confronti della dirigenza, introducendo l’abrogazione della Fornero all’interno di un programma congressuale del 2018 di stampo socialdemocratico e keynesiano.
Nel sindacalismo di base e conflittuale, invece, il tema delle pensioni non ha occupato mai un posto di rilievo all’interno delle lotte. Il più delle volte questo è assente anche nelle piattaforme rivendicative, con il risultato finale di lasciare l’iniziativa sull’argomento alla burocrazia CGIL.
Questo è quanto è successo, per esempio, a dicembre dello scorso anno, in occasione dello sciopero generale. Dopo una stagione di lotta passata a raccogliere consensi contro il green pass e la vaccinazione obbligatoria, il sindacalismo di base non è riuscito confluire unitariamente nello sciopero generale dei confederali (in alcuni casi addirittura boicottandolo, come ha fatto l’USB), con un minimo di piattaforma classista da contrapporre a quella debolissima di CGIL e UIL, la quale consisteva in un abbassamento dell’età pensionabile a 62 anni e dell’anzianità contributiva a 41 anni.
In questo deserto, ad approfittare della situazione sono state le forze politiche populiste, piccolo borghesi e “sovraniste”, come la Lega e il Movimento 5 stelle, che sono riuscite a capitalizzare il malcontento su pensioni e disoccupazione, ottenendo il voto nelle elezioni del 2018 di alcuni pezzi della classe operaia del Nord e dei disoccupati al sud, grazie alla propaganda dei 5 stelle sul “reddito di cittadinanza”. Dal punto di vista delle pensioni, il governo gialloverde presentò “Quota 100”, una legge che per pochissimi anni ha permesso di ottenere pensioni anticipate nel caso la somma dell’età contributiva e quella anagrafica arrivasse a 100. Un fuoco di paglia, che lasciava intatta la legge Fornero, fatta più con lo scopo di aiutare le imprese della media borghesia (vera classe rappresentata storicamente dalla Lega fin dalla sua nascita) a sbarazzarsi della forza lavoro che non per i lavoratori e le lavoratrici, che quando sono andati in pensione in anticipo hanno percepito importi pensionistici decimati.
Oggi entrambe le forze del governo gialloverde siedono in parlamento nel governo d’unità nazionale, che ha cancellato la “Quota 100” e ridimensionato il già debole reddito di cittadinanza, segnando di fatto la chiusura della parabola populista/sovranista in Italia, almeno di quella che ha caratterizzato lo scorso decennio. Nel caso della Lega, dopo dieci anni di solidità del partito, si è iniziata a percepire una crisi interna della leadership di Matteo Salvini. Nelle ultime elezioni amministrative dell’autunno scorso, tutto ciò si è tradotto in uno straordinario aumento dell’astensionismo che è coinciso in larghissima parte con il vuoto di voti lasciato da Lega e 5 Stelle.
La sinistra “di classe”, anche quella sedicente “trotzkista”, non è stata in grado di costruire un intervento lucido nella classe riguardo questi temi, nonostante gli ampi margini lasciati dal fallimento del riformismo. La mancanza di un’analisi materiale della crisi economica, politica e sociale, in favore di approcci impressionisti più consoni al suo elettoralismo compulsivo, preso in eredità dalla sinistra radicale, non le ha permesso di riconoscere i limiti dell’ascesa di Lega e 5Stelle. Tra i risultati finali di questa stagione, ad esempio, c’è stato il “Coordinamento delle sinistre d’opposizione” nato nel 2019, un progetto fallito già dalla nascita che consisteva in una pseudo-unione per un programma di lotta di piccoli partiti e organizzazioni della sinistra “trotzkista”, “stalinista”, riformista e radicale, privi di qualsiasi insediamento nella classe. Le ragioni strategiche che hanno portato a questo tentativo consistevano nel pericolo dettato dall’avanzata inesorabile di Salvini (stessa avanzata inesorabile denunciata in allarmati articoli dai nostri ex-compagni del partito turco DIP, che annunciavano l’avvento del proto-fascismo in Italia per mano del segretario leghista). Pochi mesi dopo, questi proclami vennero spazzati via dal covid e dell’aggravamento della crisi economica e sanitaria, così come la popolarità del leader della Lega e la sua farsesca “difesa delle pensioni”.