di Jorge Altamira
Uno dei principali editorialisti del Financial Times ha deciso di unirsi al coro di voci che hanno scoperto l’ondata di ribellioni popolari che sta attraversando il mondo, in quello che lui ha definito “l’anno delle proteste di strada”. Ma si spinge oltre, sostenendo che “quando gli storici inquadreranno il 2019 in prospettiva, potrebbero dichiarare anche esso come un anno classico di ribellione popolare”. Questo ideologo della classe dirigente va più lontano di qualsiasi altro di sinistra nel mondo di oggi.
L’opinionista ha il coraggio di allineare il 2019 agli anni 1848, 1917, 1968 e 1989. Con questa analogia pone le ribellioni dell’anno trascorso come un momento storico epocale, anche se è ovviamente in confusione, perché mischia le rivoluzioni (1917) con le semi-rivoluzioni (1848 o 1968) e le controrivoluzioni, come si conclusero le proteste e le rivolte del 1989. Questa mancanza di metodo lascia nel vuoto le prospettive di sviluppo delle ribellioni popolari. Questo è anche il caso della sinistra comune, che non osa proporre nessuna prospettiva fino alla conferma dei fatti.
Ciò che sorprende, anche se solo in una certa misura, da un giornalista del FT, è che non riesce a trovare un legame comune tra azioni di massa che si distinguono per la loro diversa collocazione e per le accentuate particolarità nazionali. È chiaro, tuttavia, che si tratta di anelli della catena internazionale di insurrezioni scatenate dal disastro della bancarotta capitalista scoppiata nel 2007/8. Questa scossa del sistema capitalistico ha colpito tutte le strutture consolidate e i regimi politici più variegati. Quando si tiene conto della diversità di questi movimenti, ciò che spicca è la loro omogeneità, poiché dall’Egitto all’Iraq e dal Sudan all’Algeria si ripetono slogan comuni – come quelli che invocano “la caduta del regime”. Oppure le richieste di Fuera Piñera o Fuera Duque [Via Piñera! e Via Duque!, n.d.t.], per una Costituente Sovrana in Cile e Colombia – e anche ad Haiti.
Il giornalista si conforma alla tesi della “spontaneità” di queste ribellioni, senza rendersi conto che un’azione politica di massa consiste in un movimento per superare questa spontaneità – in un progresso qualitativo della coscienza dello spontaneo. Cade così in un luogo comune tipico della sinistra, che consiste nel depositare la “coscienza” negli apparati al di fuori delle masse, e nel negare uno sviluppo di quella coscienza nelle masse, nel passaggio dall’azione parziale all’azione collettiva. Dimenticano che sono state le masse a creare i soviet, sui quali i bolscevichi hanno forgiato la loro strategia politica. Un partito rivoluzionario non rappresenta un polo soggettivo opposto alla soggettività delle masse, ma entrambi sono piuttosto come due aspetti dialettici della soggettività rivoluzionaria. Un partito diventa rivoluzionario quando interagisce con la soggettività degli sfruttati, per elevarsi reciprocamente al più alto livello storico. Così esso conferisce alle masse e a sé stesso una capacità d’azione definitivamente decisiva.
Questa difficoltà a legare, per esempio, i fili tra lo slogan della repubblica laica in Iraq e, diciamo, la riforma delle pensioni, in Francia, dove si è scatenato un semi-sciopero politico delle masse, o lo Stato spagnolo, per il diritto all’autodeterminazione della Catalogna, dimostra un’ingenua comprensione della rivoluzione mondiale. La politica mondiale non è unica, si articola attraverso diversità e contraddizioni. Le ribellioni nazionali, femminili, contadine e giovanili traducono in un linguaggio storico e in un’azione storica l’irriducibile opposizione tra i bisogni umani e il dominio del capitale.
Solo chi è convinto dei propri pregiudizi non può notare la “costruzione del potere” nei quartieri, nelle strade e nelle imprese del Cile, e la formazione di gruppi di azione giovanile contro la repressione, con un ruolo di primo piano della gioventù femminile. Lo stesso non potrà notare neanche l’unione di sciiti e sunniti in Iraq, sostenuta da milioni di persone per le strade e le barricate contro lo Stato settario creato dall’occupazione statunitense. Oppure l’inizio degli scioperi politici generali in Colombia, dopo quattro decenni. Questi eventi “oggettivi” sono creazioni delle masse, “soggettive”, e sono quelli che permettono una politica rivoluzionaria, perché “nulla nasce dal nulla, se non è già dentro”.
L’editorialista britannico sottolinea giustamente che l’impressione di mancanza di unità delle numerose ribellioni internazionali è determinata dall’assenza di “un momento iconico”, ossia dal fatto che non c’è ancora stata una vittoria rivoluzionaria. I governi e i governanti sono caduti, ma ancora nel quadro del preesistente regime politico. La rivoluzione si distingue dalla vittoria della rivoluzione – molte rivoluzioni hanno richiesto anni per porre fine al vecchio regime politico. La differenza tra una rivolta e una rivoluzione è che quest’ultima ha un filo di continuità, determinato fondamentalmente dalla crisi storica in atto. Le situazioni rivoluzionarie e le rivoluzioni combinano un’impasse storica nella società, che si manifesta nell’impossibilità di governare da parte di chi sta sopra e la fine della tolleranza da parte di chi sta sotto. Il giornalista di cui sopra osserva, tuttavia, che “in Medio Oriente e in America Latina le proteste sono sufficientemente diffuse da costituire una vera e propria rivolta regionale”.
L’editorialista sembra sottolineare l’ovvio quando dice che le ribellioni popolari “non possono nascondere una mancanza di organizzazione e di strategia (…) sono rivolte senza direzione”. Non è così semplice, signore – in tutti questi casi le forze politiche con una maggiore o minore base storica nazionale agiscono come forze vive in opposizione a una rivoluzione e a una vittoria rivoluzionaria. La mancanza di strategia è un concetto vuoto che la politica non tollera – come tutti sanno. Il partito comunista, in Cile, in Colombia, in Uruguay, non è più quello di una volta, ma è ancora radicato nei sindacati e modella, non più come prima, ovviamente, la sua politica. Lo stesso vale per il nazionalismo arabo, che ha sostenuto persino colpi di stato militari “laici”, presumibilmente in opposizione all’islamismo politico. C’è un’accanita lotta politica in cui la cosiddetta sinistra adotta una linea di passività politica in nome della “immaturità soggettiva”. Una crisi di direzione non va confusa con la sua mancanza. Per questo è così decisivo nel periodo rivoluzionario che cerca di farsi strada, una lotta politica ben determinata, che passa, prima di tutto, attraverso un’adeguata caratterizzazione del contesto.
Nonostante tutto, quest’uomo si lamenta, “le proteste massicce del 2019 mostrano pochi segni di estinguersi”. “Il conflitto in Spagna e in Cile potrebbe intensificarsi”. Quindi, “mentre il 2019 si qualifica per un posto negli annali della protesta di strada, è possibile che l’anno che risveglierà veramente il mondo finirà per essere il 2020”.
Auguri ai lettori, a tutti i compagni e ai combattenti