Turchia:crisi finanziaria, golpismo e guerre

Di Jorge Altamira

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Recyp Erdogan si è confermato presidente della Turchia due mesi fa, con l’aggiunta di poteri straordinari, senza la necessità di passare per un secondo turno. Come Putin in Russia, e Macri in Argentina, in misure diverse, affronta ora una ‘tempesta perfetta’ – un possibile default, crisi bancarie incluse, una crisi politica internazionale con Donald Trump e la possibilità di terminare anticipatamente il proprio mandato. La lira turca si è svalutata del 50% in sei mesi, con tendenza crescente, trascinando altre valute, come il peso argentino, il rublo russo, il rand sudafricano e il real brasiliano, e anche la liquidazione del debito pubblico italiano da parte degli investitori internazionali. I crediti inesigibili delle banche presenti in Turchia, che avevano raggiunto un pericoloso 10% del totale dei bilanci durante la crisi del 2010 e sceso al 4% due anni più tardi, ora raggiunge una percentuale superiore al 7%, con una tendenza a crescere. Un avviso di prossimi fallimenti.

Le cause immediate di questo collasso sono comuni alla maggior parte dei paesi “emergenti”. Il salvataggio internazionale, da parte dello Stato e le banche centrali, del capitale colpito dalla crisi globale, ha prodotto un riciclaggio di denaro dal centro alla periferia capitalista e ha portato ad un indebitamento straordinario di quest’ ultimi, che si è ramificato in ogni paese attraverso l’espansione del credito interno, particolarmente orientato al consumo personale. L’effetto moltiplicatore dell’indebitamento estero è enorme. La guerra economica internazionale e la politica di innalzamento dei tassi di interesse di queste stesse banche centrali hanno invertito la tendenza.

In queste nuove condizioni, ciò che distingue la Turchia è il debito in valuta estera delle società capitaliste che supera di gran lunga il debito pubblico – 300 miliardi di dollari, il 62% del prodotto interno lordo in Turchia. Secondo la stampa finanziaria, le banche turche devono rifinanziare i loro creditori stranieri, 55 miliardi di dollari entro un anno, e le società non finanziarie più di 20 miliardi di dollari, senza considerare il loro indebitamento verso il sistema bancario locale. La svalutazione della lira ha aumentato astronomicamente questo debito in valuta locale. Secondo il Financial Times, è un debito “unhedged” – cioè, non è assicurato rispetto una svalutazione della valuta. Il BBVA ha già annunciato una perdita di un miliardo di dollari. Il settore bancario europeo è dominante in Turchia, dove spiccano anche l’italiano Unicredit e il francese Paribas. La più grande banca della Turchia, di proprietà statale Halkbank, una delle più colpite dalla svalutazione, è appena stata condannata a pagare una multa enorme da un tribunale di New York, accusato di violare le sanzioni degli Stati Uniti contro l’Iran. Le informazioni della Banca di Basilea mostrano che i debitori turchi devono alle banche spagnole 65 miliardi di sterline, i francesi 30 e gli italiani 13 miliardi. Ciò deve generare una crisi finanziaria generalizzata e una svalutazione a cascata delle valute, tra cui l’euro e la sterlina inglese.

Crisi politico-finanziaria

In contrasto con la cricca finanziaria locale e internazionale, Erdogan si è rifiutato di aumentare i tassi d’interesse, di cercare un accordo con il Fondo monetario internazionale e creare una banca speciale che compri il debito inesigibile delle banche private e statali. Teme come la peste di causare una recessione economica con queste misure e la conseguente reazione popolare; le elezioni municipali che dovrà affrontare entro tre mesi potrebbero interrompere la recente vittoria alle elezioni presidenziali. Dall’altro lato, gli osservatori stimano che Erdogan non ricorrerà al controllo dei cambi o ad altre misure interventiste, dato il suo orientamento fortemente privatistico. Questo vuol dire che è in un gigantesco impasse, anche se attaccasse ripetutamente il “club dei tassi d’interesse”, in riferimento alle banche. Devi scegliere tra la crisi industriale e l’iperinflazione: due forme complementari di insolvenza e bancarotta.

Trump ha colto l’opportunità di questa crisi per attaccare Erdogan, che si è allineato con la Russia sulla questione della guerra in Siria. Inoltre, la Turchia ha occupato la Siria nordoccidentale, sfidando il sostegno del Pentagono alle milizie kurde che hanno sfrattato lo Stato islamico da quella regione. Si prepara ad occupare la città di Iblid, con una popolazione di 2,5 milioni di persone, alle quali si oppongono Stati Uniti, Russia e Siria. Una informazione stringata ha fatto sapere che nel recente incontro controverso tra Trump e Putin, quest’ultimo ha proposto il ritiro dell’esercito russo della Siria e l’alleanza russo-americana per “ricostruire” la Siria con il capitale americano ed un accordo internazionale con Israele. Una via d’uscita molto conveniente per Erdogan, che ha tessuto con Putin questa proposta da due anni. Tale principio di accordo, tuttavia, è stato respinto dal Congresso degli Stati Uniti, che invece ha deciso di rafforzare le sanzioni contro la Russia, in vigore dall’occupazione di Putin della Crimea. L’accordo Trump-Putin è diventato un boomerang. Di conseguenza, lungi dall’offrire un “aiuto” finanziario alla Turchia, Trump ha imposto una tariffa del 25% sulle importazioni di acciaio turco, che rappresentano il 15% delle esportazioni della Turchia, aggravando la tendenza verso la bancarotta. Il pretesto utilizzato per le sanzioni è che la svalutazione rende più economiche le esportazioni della Turchia a scapito della produzione nordamericana. Si tratta di un tipico caso di errore trumpiano, poiché le sanzioni più accentueranno la della svalutazione lira turca.

Svolta e rappresaglie

Un altro pretesto per le sanzioni è il rifiuto di Erdogan di rilasciare un pastore evangelico americano, accusato dalle autorità turche di spionaggio. È una disputa che ha più di due anni, ma che scoppia molto opportunamente in questa occasione di crisi finanziaria. Il pastore ha appena ricevuto gli arresti domiciliari. La vera ragione per punire la Turchia, nel bel mezzo di questa crisi senza controllo, riguarda con la svolta internazionale di Erdogan verso la Russia, la Cina e l’Iran di circa due anni fa, rispetto alla guerra in Siria e l’insieme di conflitti nel Medio Oriente (crisi politica in Iraq, guerra in Yemen, sanzioni contro l’Iran, apartheid stabilita da Israele contro popolazioni non ebraiche). Erdogan intende scambiare la libertà dell’evangelico con l’estradizione di un pastore musulmano, che risiede negli Stati Uniti, al quale accusa di aver fomentato un colpo di stato militare nel 2016, sconfitto da Erdogan. Trump rifiuta lo scambio, semplicemente perché quel colpo di stato è stato efficacemente promosso dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea per fermare la deriva della Turchia verso la Russia. Un tentativo di scambio per una cittadina turca imprigionata in Israele per collaborazione con Hamas, non ha prosperato – Erdogan pretende la testa del golpista che risiede in Chicago.

Il sabotaggio del congresso statunitense all’accordo Trump-Putin aggrava la situazione; ha anche respinto la tenuta di un referendum nell’area dell’Ucraina occupata da milizie filo-russe, che consentirebbe quindi la revoca delle sanzioni economiche contro la Russia. Tali sanzioni sono state rafforzate, quando ci si aspettava un’attenuazione; Putin ha ridotto la propria quota di debito degli Stati Uniti in forma sostanziale. Trump ha trasformato la crisi finanziaria della Turchia in un’ostaggio, da scambiare per un cambio delle alleanze di Erdogan o direttamente per la sua caduta. La crisi finanziaria e la guerra economica si intrecciano apertamente e aprono il cammino ai colpi di stato e l’espansione delle guerre.

Erdogan ha reso pubblica la minaccia di ricorrere alla Russia, Cina e Qatar per affrontare la crisi finanziaria. I limiti di azione dei governi di questi tre paesi sono, tuttavia, molto limitati, perché attraversano, a loro volta, crisi finanziarie. Il rublo e lo yuan sono stati colpiti dalla catena di svalutazioni; il Qatar affronta il boicottaggio internazionale dell’Arabia Saudita e degli Emirati del Golfo. Qatar, d’altra parte, è associato con l’Iran nello sfruttamento delle più grandi riserve mondiali di gas, proprio quando Trump ha annunciato massicce sanzioni contro l’Iran, che vive un crollo della sua economia. Questa costellazione di scontri ha dato spazio al sospetto, più volte menzionato, che la Cina, attaccato dagli Stati Uniti abbandoni il dollaro come valuta di riferimento per il commercio delle materie prime, in primo luogo, il petrolio. L’imperialismo è una tendenza permanente alla guerra, che però si sviluppa durante la bancarotta capitalista, che si accentua nel crollo asiatico del 1997 e acquisisce un’importanza storica nel 2007/08.

Le crisi nazionali hanno da tempo perso il suo carattere locale, ma ora fanno parte di una guerra internazionale.

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