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L’ondata di proteste e manifestazioni iniziata alla fine dello scorso dicembre e che ha coinvolto la maggior parte delle città dell’Iran sarà ricordata come un punto di svolta storico. Il panorama politico non sarà più lo stesso.
Indipendentemente dall’esito delle proteste, se apriranno la strada a una trasformazione storica, se fungeranno da porta d’ingresso a sviluppi al di fuori dei desideri dei manifestanti, se verranno assorbite o infine soppresse, un punto è certo: dopo ciò che è accaduto, il regime al potere non può più continuare nei vecchi modi. Le recenti proteste esplosive hanno distrutto le fondamenta politiche, culturali e ideologiche del regime islamico e hanno messo in luce la sterilità della cosiddetta “rivoluzione islamica”.
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Le recenti proteste sono l’evento di classe più importante degli anni successivi alla rivoluzione. Più che in qualsiasi altro momento sono state le classi urbane più basse a formare il nucleo attivo dei manifestanti. Gli indigenti urbani, la massa di senza voce e senza volto erano raramente stati presenti per strada in tale numero nelle precedenti proteste. Coloro che vivono ai margini, i senzatetto, i venditori ambulanti, i lavoratori giornalieri o stagionali, i disoccupati, ecc. sono stati visti insieme ai lavoratori, agli studenti e ai giovani e hanno costituito la componente principale della folla sulle strade. Si trattava di persone che non hanno avuto alcun posto nelle discussioni dominanti nel paese, né erano rappresentate in alcun luogo. Inoltre, non si sono riuniti e organizzati in alcuna struttura organizzativa con funzioni direttive.
Negli anni successivi alla rivoluzione abbiamo assistito a numerosi atti ed eventi collettivi nel paese. Le proteste popolari hanno svolto un ruolo regolare nella vita quotidiana di gran parte del paese. Ma la massa che è cresciuta nei sei giorni del nuovo anno è stata unica, non solo nelle sue dimensioni di classe, ma a causa del suo dinamismo esplosivo, la diffusione geografica, il radicalismo dei suoi slogan, e la varietà dei metodi utilizzati. Nulla di tutto questo si è visto dalla rivoluzione del 1979. Improvvisamente le regole del gioco politico sono cambiate e tutti coloro che erano stati esiliati dal consueto panorama politico del paese hanno trovato la propria voce, e imposto nuove azioni, parole e cultura al discorso politico prevalente.
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La forza trainante della rivolta di dicembre è stata il sommarsi di questioni economiche, politiche e sociali. Il terribile crollo del tenore di vita dei lavoratori e di vari strati della popolazione oppressa ha creato una base materiale per questo movimento, che, insieme alla proletarizzazione galoppante dei produttori indipendenti e al crollo degli strati medi della società, ha alimentato il malcontento di milioni di persone.
Le radici profonde di questa situazione vanno ricercate nel modo di produzione capitalista. Ma senza dubbio ciò che ha esacerbato questo processo sono le politiche economiche neoliberiste e militariste degli ultimi decenni. La ristrutturazione dei modelli di accumulazione di capitale, la nascosta o palese sottrazione di proprietà sotto il nome di privatizzazione, mercificazione o deregolamentazione, ha creato perturbazioni improvvise e catastrofiche nelle funzioni delle istituzioni più elementari della vita sociale. Questi erano alcuni dei nastri trasportatori che trasferivano ricchezza e reddito dal basso verso l’alto, aumentando costantemente le disuguaglianze e le profonde divisioni sociali e di classe che accompagnavano questi sentimenti infiammati di ingiusta impotenza, che a loro volta accendevano le fiamme del malcontento.
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Le forze scatenate nelle strade non acconsentono più a resistere legalmente e all’interno del sistema. Le loro speranze di migliorare le circostanze ricorrendo alle elezioni, partecipando alle processioni e alle schede elettorali, scegliendo tra il male e il peggio, avevano raggiunto il loro inevitabile risultato: passare dall’intervento indiretto attraverso i rappresentanti all’azione diretta. Quando l’inutilità della protesta “legittima” diventa l’esperienza universale del popolo, il ricorso all’intervento “illegittimo” diventa inevitabile.
Ma ciò che ha radicalizzato le rivendicazioni e trasformato quelle relative alle condizioni di vita e al benessere in richieste dirette all’essenza del regime e alle sue strutture fondamentali, in altre parole dalla riforma al cambiamento, ha le sue radici altrove: perdita di speranza in qualsiasi cambiamento, perdita di fiducia in qualsiasi miglioramento facendo affidamento su fazioni di regime rivali, e un crollo della fiducia nelle promesse fatte da coloro che sono al potere per migliorare le condizioni o cambiare le politiche.
Lo choc provocato dall’abbandono da parte del presidente Hassan Rouhani delle promesse fatte prima della sua schiacciante vittoria alle elezioni e dalla rapida svolta a destra del suo governo nei primi passi del suo secondo mandato ha inferto un duro colpo alle speranze di un popolo che aveva riposto tutte le sue aspettative nelle urne. Le rivelazioni degli ultimi mesi e l’esplosione di informazioni sulla corruzione hanno fatto passare sotto silenzio, a tutti i livelli, le menzogne del governo. Si è rivelata la profondità della corruzione nel tessuto stesso del sistema.
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Come la maggior parte dei paesi, l’esplosione dell’informazione ha cambiato il modo in cui definiamo la capacità di mobilitare e organizzare i movimenti di massa. Qui, come altrove, i manifestanti degli ultimi anni si sono affidati sempre più a Internet e allo spazio virtuale per connettere le loro sparse radici sociali. La crescente diffusione dei media satellitari e il rapido aumento all’interno della popolazione dei mezzi per accedervi non solo ha privato il regime islamico del suo monopolio su notizie e informazioni, ma ha dato ai manifestanti la possibilità di effettuare e dirigere ogni movimento e protesta. Il ruolo di primo piano svolto dai social media nel guidare l’opinione pubblica indipendentemente dai limiti geografici e locali e le crescenti possibilità offerte dallo spazio virtuale nella creazione di reti, nella mobilitazione e nell’organizzazione, ha portato i movimenti di massa in una fase del tutto nuova.
La capacità dei giovani di utilizzare nuove applicazioni al loro servizio ha conferito loro un ruolo unico nella mobilitazione e nell’organizzazione di movimenti di massa. Senza tali strumenti, e la loro abilità e audacia, la rapida diffusione del recente movimento da un capo all’altro dell’Iran sarebbe impensabile.
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È importante sottolineare che le recenti proteste sono state spontanee, e la loro direzione indipendente, interna e organica. Ciò rimane vero a prescindere da qualsiasi vantaggio tratto dalle opportunità o dalle aperture che si sono presentate. Sono scesi in piazza ed hanno esternalizzato le loro richieste nelle proteste popolari delle ultime due settimane. Migliaia di cellule e reti orizzontali si sono formate intorno a innumerevoli attivisti civili e attori sociali, che hanno assunto il ruolo di dirigere, coordinare e armonizzare questi movimenti. Nell’era di Internet e dei social media, la spontaneità e la leadership decentrata sono caratteristiche di molte azioni collettive in assenza di organizzazioni politiche o civili generali. Ciò è particolarmente vero all’inizio, quando sono in fase embrionale. Questa regola non si applica solo ai recenti avvenimenti in Iran, ma è stata convalidata in molte azioni collettive qui e in altri paesi.
Se nelle prime fasi embrionali la spontaneità, la leadership interna non legata o non legata in modo stretto possono fornire un sostegno sicuro e importante alla mobilitazione delle persone, ciò non garantisce un’ulteriore crescita e progresso. Una leadership dispersa e senza legami, capace di riflettere la varietà sociale e politica delle masse in movimento, non risponde necessariamente alla loro necessità di muoversi insieme con uno scopo unito e sovrapposto, all’unisono e solidale.
Nella recente rivolta, dolori, privazioni ed esperienze condivise hanno agito da fattore di condivisione degli ‘slogan d’opposizione’, su ciò a cui ci si oppone. Tuttavia, non si è ancora raggiunto un consenso sugli “slogan propositivi” da adottare al loro posto. Il prolungamento delle proteste prima o poi supererà il carattere dispersivo delle forze che dirigono il movimento, e con esso i crescenti conflitti tra tendenze diverse e interessi contrastanti per cavalcare sulle spalle delle persone risorte e per determinare i loro obiettivi e l’orizzonte del loro movimento.
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Queste proteste, come tutte le altre di questo tipo, se non vogliono ridursi a scintille, devono evolversi in un movimento con caratteristiche in qualche modo variabili. Tutte le loro caratteristiche, dalla leadership, struttura e strategia organizzativa, alla tattica e all’ideologia, saranno soggette a cambiamenti dialetticamente diretti dagli elementi e dalle condizioni interne ed esterne. Da qui in poi, la leadership di questi movimenti può oscillare tra indipendenza e spontaneità da un lato e dipendenza e vulnerabilità all’influenza esterna – ruoli tra un agente attivo e un esecutore sostitutivo.
Per una leadership organica che nasce dall’interno del movimento per sopravvivere e rafforzarsi c’è bisogno, tra le altre caratteristiche, di una profonda consapevolezza storica, politica e di classe, e la capacità di utilizzare saggiamente le risorse disponibili senza perdere il controllo. Un movimento che si definisce nella sua fase embrionale da ciò che rifiuta, sarà soggetto in fasi successive a un profondo conflitto nella scelta delle strategie e delle aspirazioni. È in queste fasi che numerosi poteri e interessi cercheranno di cavalcarlo e di guidarlo verso i propri obiettivi.
Non c’è da stupirsi che Donald Trump, che nega l’ingresso ai cittadini iraniani accusandoli di terrorismo, o Reza Pahlavi [erede dello Shah e pretendente al trono, N.d.T.] che ha trascorso tre o quattro decenni della sua vita ‘lottando’ nei club e nelle case da gioco di Las Vegas improvvisamente alzino la testa in difesa del ‘movimento degli affamati’ in questo paese.
L’importanza di ottenere una leadership organica, indipendente e coordinata non sta solo nell’essere fedeli agli interessi politici e di classe, ma anche nel resistere all’influenza esterna.
In definitiva, ciò che definirà la direzione e gli obiettivi dell’attuale rivolta degli emarginati, o come realizzarli, non si ottiene necessariamente facendo affidamento sulle proprie esperienze individuali o di gruppo. Ciò richiede una ristrutturazione dell’attuale leadership dispersa, nonché l’integrazione dell’esperienza personale e di gruppo con le conoscenze politiche e di classe.
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Dopo alcuni giorni il governo si è finalmente ripreso dallo shock dell’inaspettato e pesante colpo inferto da affamati e diseredati. Ha fatto ricorso all’unico abito che avrebbe nascosto la sua nudità, la repressione. Le guardie antisommossa occupavano le strade. Migliaia di persone sono state incarcerate. Bambini, donne e uomini che sono al limite della pazienza sono in fila fuori allle “corti rivoluzionarie”, accusati di essere agenti di potenze straniero. I media ufficiali creano un’atmosfera di paura, intimidazione e ansia. Quel che è certo, tuttavia, è che né la polizia, né la repressione ideologica e psicologica, né l’uso di hardware e software, saranno in grado di nascondere la propria incapacità di risolvere le contraddizioni che l’hanno avvolta. Il regime nella sua totalità non ha alcuna risposta alle più piccole aspettative della massa della popolazione.
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Il terremoto sociale del dicembre 2017 ha scosso il cuore della scena politica iraniana. Eppure, non sarebbe un errore affermare che abbiamo assistito a un’avvisaglia e che il vero terremoto deve ancora venire. Quando o quanto esteso sarà è irrilevante. Ma quando verrà, i governanti non saranno in grado di “raccogliere” i pezzi e le conseguenze, né di salvare nulla per sé stessi da ciò che rimane, non importa quante stelle militari portino sulle spalle.
La prossima rivolta, che avrà successo o sarà soppressa, avrà indubbiamente effetti profondi e formativi sul paese e sul sistema di governo, catastrofici.
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Un ampio movimento di protesta non è un evento, ma un processo. Un’entità in via di “divenire”, in uno spazio tra speranza e paura. Fluida e in costante tensione tra tendenze interiori, a volte conflittuali. Alternanza tra forze e motivi che la spingono in avanti e ostacoli che la trattengono. Indipendentemente da dove e come inizia non c’è fine predestinata. La sua direzione e le sue prospettive sono determinate dall’equilibrio delle forze al suo interno, che è mutevole, e dall’impatto di fattori esterni che cambiano in egual misura. In definitiva, essi dipendono dall’interrelazione tra fattori oggettivi e soggettivi.
Ciò è particolarmente vero per movimenti come quelli che hanno avuto luogo in dicembre in Iran. Quelli che si diffondono da una base strutturalmente ampia, dove una rete di nuclei piccoli e grandi si annodano insieme e che come radici striscianti si muovono in qualsiasi direzione, e si replicano rapidamente. Un modello che appare e cresce da componenti autonome, e con relazioni che non si basano su una gerarchia di comando, né sono sotto l’influenza di una singola egemonia o leadership. Tale struttura non segue necessariamente un unico e costante corso e obiettivo. Né ci si può aspettare un insieme unificato di slogan, o un singolo modello di comportamento, o necessariamente la durata o la stabilità.
Dal mese di dicembre il panorama politico del Paese è stato testimone di processi che, nonostante il loro grande potenziale trasformativo, sono fluidi e pieni di alti e bassi. Qualsiasi intervento e coinvolgimento pratico e teorico in questi sviluppi può aiutare a sviluppare il loro potenziale di liberazione solo se accompagnato da una profonda comprensione delle potenzialità e dei limiti che il movimento si trova ad affrontare. Una reale consapevolezza della realtà delle forze che ostacoleranno e faciliteranno il progresso.
Da ciò sorge una domanda chiave: in che misura e in che modo si può evitare che i punti di forza di questo tipo di rivolte diventino la loro debolezza?
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Il movimento di un popolo che è cresciuto è pieno di potenzialità e limiti, punti di forza e di debolezza e ha molte ambiguità nella sua prospettiva. Ciò che ci attende è un ventaglio di possibilità: dal fare un salto e diventare lo strumento di una trasformazione strutturale; al limitarsi ad accettare il proprio ruolo nell’attuare un cambiamento politico; al cadere nella trappola di essere assorbiti dal sistema; al cedere a una forza esterna; o, essenzialmente, agire per conto di un’altra forza. In una prospettiva così variegata, sarebbe altrettanto indifendibile rifiutarli su due piedi, oppure infatuarsi velocemente e presentare in modo esagerato un risultato chiaro e ottimistico.
Non ci sono risultati predefiniti per una ribellione spontanea di un popolo. Tutto dipende dal modo in cui le figure autonome si collegano in ogni fase, dal contenuto e dalla direzione. Cristallizzate sotto quali richieste affermative e unite sotto l’egemonia di quale pratica ideologico-intellettuale. Il destino di un tale movimento è determinato dalla somma algebrica di quei processi che sono in grado di mobilitare riserve latenti, attivare corpi inattivi, superare crepe, rimuovere ostacoli, ed estrarre nuove possibilità dalla scarsità.
Gli indigenti che a dicembre si sono sollevati contro l’oppressione e l’ingiustizia sono ancora all’inizio del loro cammino. Il risultato della loro lotta è legato al moltiplicarsi delle lotte che, ad ogni nuovo passo, li accompagnano sempre di più. Il conflitto tra coloro che si affidano all’autonomia interna e coloro che fanno affidamento su estranei; il conflitto tra coloro che insistono sulla direzione dal basso e coloro che guardano verso l’alto per una leadership; coloro che insistono sulla solidarietà nella diversità e altri che vogliono l’uniformità. Poi ci sono i conflitti di chi difende le esigenze con una base materiale e incoraggia la solidarietà di classe con chi ha slogan che nascono dal sentimento di superiorità razziale, sessuale, linguistica o religiosa, che allargano le divisioni minori. E infine il loro destino dipende dal destino del confronto tra approcci semi fascisti, populisti, liberali e marxisti.
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Come dobbiamo definire la vittoria?
L’accesso a richieste e obiettivi può essere accettata come una vittoria per coloro che si sono posti davanti alla scena politica iraniana lo scorso dicembre e hanno sfidato i sistemi politici e sociali dominanti del paese.
La risposta più breve sarebbe “eliminare la povertà”. La povertà è la realtà oggettiva del terreno su cui si muovono le masse povere. Questo è stato il dolore che ha unito gli emarginati delle città, gli uomini, le donne, i giovani e gli anziani, i disoccupati, i pensionati, i lavoratori e gli studenti in un’unica formazione. Le richieste immediate di coloro che si sono ribellati alla povertà sono “pane”, “lavoro”, “alloggio”, “assistenza sanitaria” e “istruzione” in generale e diritti umani.
Il chiarimento e la realizzazione di queste esigenze su più ampia scala significa la creazione di un quadro politico basato sui due pilastri della libertà e dell’uguaglianza (letti sui pilastri del socialismo e della democrazia popolare partecipativa). Tutto ciò che non lo è può essere associato a un alleggerimento relativo e temporaneo di alcune caratteristiche della povertà, ma lo eliminerà. Il persistere di disuguaglianze e povertà in varie forme o misure è una certezza.
I movimenti di protesta potrebbero non raggiungere i loro obiettivi generali più ampi. Potrebbero anche non raggiungere i loro obiettivi immediati. Tuttavia, non si può mai parlare della loro sconfitta totale. Concludere così, e definire gli sforzi del popolo come privi di risultato e inutili è anche una falsità. Indubbiamente le proteste di dicembre hanno già spostato molte delle barriere precedenti.
In basso sono cambiate le credenze e le potenzialità interiori di ampie fasce della popolazione ed è avanzato il loro potenziale come ‘soggetti politici’. In alto, si è sconvolto l’equilibrio del blocco dominante e si sono messe in discussione le strutture istituzionali del sistema e i suoi fondamenti ideologici e politici di base. Non da ultimo, i pianificatori sono stati costretti ad abbandonare la loro politica di austerità economica e le idee di derubare ulteriormente il granaio della popolazione. Anche uno o due progetti di riforma sono stati rilanciati.
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Ci sono due serie di limiti e ostacoli che impediscono alle proteste di strada di dicembre di trasformarsi in un movimento di successo. Quelli che hanno radici interne e quelli che sono oggetto di interferenza esterna.
I limiti interni possono essere riassunti nell’assenza di un sistema indipendente di informazione, nella debolezza dei meccanismi per coordinare, combinare gli obiettivi e creare solidarietà, nella mancanza di chiarezza su cosa dovrebbe sostituire il regime esistente; l’incapacità degli slogan di riflettere accuratamente il nucleo della disaffezione e la natura di classe delle proteste e infine l’incapacità del movimento di ampliare la propria base sociale orizzontalmente e verticalmente e di galvanizzare i propri potenziali inattivi.
Gli ostacoli provenienti dall’esterno sono ben noti: una vasta gamma di repressioni ideologiche e fisiche; il fascino di tendenze più pacifiste; spaccature orizzontali causate da tendenze sciovinistiche e razziste; deviazioni derivanti da correnti populiste di destra; tentativi da parte delle potenze imperialiste di cavalcare il movimento e altro ancora.
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Questi pericolosi ostacoli saranno politicamente efficaci e susciteranno preoccupazione se la loro presenza sarà ignorata o sminuita fin dall’inizio. L’esagerazione del dinamismo interno e, con stupore, la sopravvalutazione delle potenzialità e delle capacità dei movimenti spontanei sono indubbiamente elementi che aprono la strada a tali errori di giudizio.
C’è una preoccupazione altrettanto, se non maggiore, nell’assumere il punto di vista opposto: un punto di vista che esagera i limiti e gli ostacoli che il movimento deve affrontare. Uno che dà alle minacce un peso irrealistico, e le guarda con occhi paurosi. Tale punto di vista non può vedere alcun ruolo nell’equazione per gli elementi coscienti e presuppone che il movimento popolare manca di qualsiasi elemento di resistenza vigilante.
Una cosa manca da entrambe le parti di queste opinioni: il fatto che il risultato delle lotte collettive siano tutto o niente. La realtà è a metà strada tra l’infatuazione e la paura. Nella lunga guerra per la creazione di un mondo migliore, il risultato minimo di ogni battaglia è quello di spingere oltre le frontiere del potere stabilito e rendere il più possibile durevoli e irreversibili i guadagni e i progressi compiuti.
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È un segreto di Pulcinella che per qualsiasi dittatura religiosa di fronte a una rivolta che minaccia il suo rovesciamento, è centrale nella sua strategia la creazione di paura attraverso la strage. Diventa ancora più rabbiosa quando si trova sul bordo di un precipizio. Ci vuole per nascondersi dietro i pasdaran, la polizia, gli interrogatori, gli informatori e le guardie carcerarie. Cerca sicurezza nelle caserme.
Continuano a insaporire la repressione giocando lo spettro dell’incubo siriano, il destino della Libia e dell’Iraq, l’incubo di affondare in un mare di sangue e di guerra, la disgregazione del paese….
Per le persone che si sono mobilitate in tutto il paese lo scorso dicembre la minaccia più immediata è la repressione, e affrontarla è il compito più urgente. Quanto più alto è il prezzo della repressione per il regime, tanto minore è la sua capacità di mobilitare le forze repressive. Il modo migliore per contrastare la repressione è cambiare il bilancio di profitti e perdite.
Poi viene la necessità di neutralizzare la paura e le pressioni psicologiche sulla popolazione, l’arma che è la più grande risorsa del regime e che può essere trasformata nella sua più grande debolezza. In questo contesto, invertire la direzione della pressione psicologica verso le forze repressive del regime può diventare una tattica importante del movimento. Indubbiamente una volta che l’insurrezione popolare metterà d’assedio il cuore dell’apparato repressivo, ed esporrà il nome e la vera identità del suo personale più importante, è più probabile che il suo crollo sia più rapido di quello del coraggio e dello spirito di sacrificio dei manifestanti sotto la minaccia della prigionia, della tortura e dell’esecuzione.
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La resistenza stessa contro la repressione, nel suo nucleo, offre un importante potenziale per mobilitare la protesta. Molti dei movimenti di protesta sparsi nel paese che si svolgono oggi e che sono, nelle loro varie forme, proteste contro la repressione sono di questa natura e possono essere usati come modelli per un’azione più diffusa e persistente. Esempi sono la raccolta e la diffusione di informazioni sulle persone arrestate nel modo più ampio possibile, la scrittura di lettere di protesta di massa, la raccolta fuori dai cancelli delle carceri, i funerali pubblici per coloro che hanno perso la vita, regolari cerimonie commemorativi per i morti, ecc. possono tutti diventare strumenti per esercitare pressioni sull’apparato repressivo del regime.
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Tuttavia, la lotta alla repressione alla radice, come minaccia a lungo termine, è di natura diversa e richiede una trasformazione qualitativa degli equilibri di potere. Dipende dalla mobilitazione di tutte le capacità potenziali. Per scavare in profondità in tutte le fonti di energia, creatività, audacia, solidarietà, ricerca della giustizia, le richieste di uguaglianza, e la liberazione.
Eppure, queste risorse sono ostacolate da crepe di varie tonalità: Una società piena di divisioni etniche, sessuali, religiose, linguistiche e geografiche. Questa ricca topografia, tuttavia, ha un duplice effetto sui movimenti popolari. Una volta superate, le crepe costituiscono una risorsa inestimabile e indistruttibile contro le forze di repressione. L’incapacità di superare le crepe comporta una pena pesante e la risorsa stessa che può rafforzare la resistenza popolare può anche essere girata contro di essa. Può arrivare a mobilitare una parte della stessa base della resistenza contro le altre. Due campi opposti si schierano su entrambi i lati di queste fessure sociali e superarle e approfondirle ed energizzarle è essenziale per la sopravvivenza. La topografia del nostro regno non conosce spettatori.
La solidarietà tra le diversità può realizzarsi solo attraverso il riconoscimento delle diversità. È possibile resistere alla polizia, alla sicurezza e all’esercito solo utilizzando tutte le risorse, e ciò è possibile solo quando la comunanza delle diversità si avvicina alla realizzazione. In pratica, ciò significa combinare esigenze comuni e specifiche. In altre parole, quando la solidarietà è subordinata al pieno riconoscimento della diversità e al dolore comune delle masse lavoratrici, essa si combina con i dolori aggiuntivi di donne, bambini, giovani e anziani, turchi, curdi, arabi, baluci, turkmeni, cristiani, ebrei, zoroastriani in una sola voce.
Se ampliamo l’orizzonte e torniamo alla questione della repressione, dobbiamo accettare che la repressione è un pericolo reale solo quando le proteste si limitano alle dimensioni attuali. La repressione è terribile solo quando le proteste popolari non si trasformano in una rivolta duratura. Fino a quando la legittimità della protesta non sarà in grado di mobilitare fasce sempre più ampie degli strati passivi della popolazione e di provocare gli oppressi ad aumentare incessantemente il loro peso qualitativo e quantitativo.
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Un’altra necessità immediata è quella di creare diversità sia nell’arena che nella varietà della lotta. Se l’attività di strada è combinata con il movimento dietro la strada, se la lotta sul posto di lavoro è combinata con la lotta nel luogo di residenza, se le manifestazioni sono combinate con la raccolta di rifugiati, l’occupazione di uffici e fabbriche, scioperi, graffiti, e vari piccoli e grandi raduni, se la lotta politica si svolge a fianco della solidarietà con la classe, le lotte civili e sindacali, se a quelle forme di lotta collettiva che hanno un prezzo pesante si aggiungono le resistenze individuali che sono meno costose, allora ci saranno poche persone o gruppi tra la massa degli oppressi che non troveranno un ruolo, a seconda della loro preparazione e capacità, nel movimento.
L’apparato repressivo è efficace solo mentre le proteste sono limitate a poche tattiche e a poche località geografiche. C’è una correlazione inversa tra un popolo che entra sul campo di battaglia per rompere l’ordine esistente e la macchina repressiva la cui stessa sopravvivenza dipende dal suo mantenimento. La sopravvivenza da uno dipende dall’assenza dell’altro. Se l’insurrezione popolare non riesce a trovare in modo creativo e incessante i modi per circondare e sconfiggere l’apparato repressivo, prima o poi dovrebbe aspettarsi di essere circondata e sconfitta.
Un movimento di protesta che inizia una corsa verso una trasformazione strutturale-politica, che porta a un rovesciamento delle relazioni sociali esistenti, se quando raggiunge il fuoco non lo usa per bruciare, finirà per bruciare sé stesso.
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Un’altra minaccia altrettanto pericolosa è quella di essere assorbiti da una dozzina di nemici giurati che fanno la fila per pescare nelle acque fangose di un popolo affamato e saccheggiato, insorto al termine della pazienza. Non nuoce alla salute morale di un popolo, la cui specialità è quella di sfruttare, di comparire per un po’ accanto alle sue vittime, quando credono di avere l’opportunità di fare un giro gratis sul dorso del movimento delle persone indigenti.
Per loro le persone che si sono ribellate a dicembre sono come un gregge senza padrone in cerca di un pastore. Non importa quale certificato portino sotto il braccio, a quale gruppo sociale appartengano, quale sia il loro passato politico, quale insieme di convinzioni fondamentali abbiano, quali impegni etici assumano. Tutto ciò di cui hanno bisogno è la capacità di ingannare.
In questo mestiere i neonazisti della banda di Trump sono abili come Ahmadinejad e il suo dodicesimo imam.
L’ex Presidente Ahmadinejad ha sempre sostenuto di essere in costante contatto con il dodicesimo imam, Mahdi, che fu occultato nel X secolo d.C., e che gli sciiti credono riapparirà alla fine del mondo, e le varie progenie dei re Pahlavi. Basta qualche camioncino di banconote, uno o due canali televisivi 24 ore su 24, una manciata di intermediari e protettori politici. Poi è sufficiente aprire la saracinesca alle acque reflue della Repubblica islamica.
Non mancano le piattaforme quando si parla di “diritti umani” e di “libertà” religiose e culturali. Ma parlare di “uguaglianza” è un argomento tabù per tutti loro. A quale albero appenderanno l’uguaglianza? Razza? Genere? Religione? Nazionalità? In tutti questi casi i loro record sono neri. Troverete la stessa ‘uguaglianza’ nella ‘razza pura ariana’ dei Pahlavi come nel record delle molestie sessuali del ‘presidente alla Casa Bianca’ come nella scimitarra disegnata dell’imam occultato nel clan Ahmadinejad [6].
Sono abituati a percorrere sentieri già ben tracciati: chiedono libertà per i loro amici culturali! Sono così fuori contatto da non notare che lo spazio culturale è stato a lungo territorio liberato per le donne, gli uomini, giovani e anziani. Sembra che non siano stati informati che il governo del clero è stato messo in ginocchio proprio dove è iniziato: la cancellazione dell’esistenza sociale delle donne e la loro ridefinizione come oggetto sessuale, nascondendole dietro un velo nero o nel profondo della casa. Devono ancora sentire parlare della sua sconfitta farsesca. Ora quelli che hanno bisogno di nascondersi in casa sono l’hojjatoleslam [esperto religioso islamico, N.d.T.] e l’ayatollah. Loro hanno bisogno togliere il turbante e la toga e a lasciare la casa.
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Oggi l’Islam politico ha perso il controllo dell’intera sfera culturale, gran parte della quale è stata conquistata dal basso. Le donne sono state l’avanguardia in una guerra quarantennale e possono vantare il merito della vittoria nella prima delle battaglie. Sono le donne che hanno ridefinito le libertà culturali non nelle sale ufficiali, ma nelle strade, nelle piazze e negli spazi pubblici. Essi ne hanno ridefinito i principi fondamentali.
E sono loro che hanno pagato l’intero prezzo. Non proveniva né dal portafoglio del principe [Reza Pahlavi, N.d.T.] né dai conti bancari malesi e canadesi dei presidenti attuali o precedenti,
né dalle casse di questa o quella potenza globale. Le donne lo hanno ottenuto attraverso milioni di arresti, prigioniere, milioni di frustate, a migliaia sulla corda del boia, attraverso un dolore e una sofferenza che la storia non potrà mai dimenticare.
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Queste realtà, tuttavia, non sono sufficienti per evitare il pericolo che il movimento popolare venga incanalato verso false strade. In particolare, una volta che la stanchezza mentale ed emotiva si è estesa ai vari strati della società, qualsiasi movimento collettivo rischia di perdere la sua strada. Potrebbe essere assorbita dal sistema regnante. In alternativa c’è il pericolo di essere schiacciati su una delle correnti alternative di essenza non troppo diversa. Per evitare questa trappola è fondamentale e necessario comprendere appieno l’attuale scena politica e le varie trappole che vi si frappongono.
Se riconosciamo che la comprensione della natura delle forze politiche esistenti e la differenziazione tra di esse come primo passo essenziale per evitare le trappole, il prossimo passo è costituito dalle questioni relative alle alternative strutturali e politiche. Che tipo di Stato e che tipo di potere politico? Quali libertà? Quale uguaglianza? Quale giustizia? Quali diritti? Quale giudizio? Quale legge? Partecipazione a che cosa? Che cosa sarà condiviso: che tipo di relazioni sociali, proprietà, ricchezza e politica? Che tipo di dirigenza, che tipo di gestione …? Qual è la quota di un individuo, di un collettivo, di un gruppo etnico, di un genere?
Per distinguere l’amico dal nemico, la maschera di semplice opposizione al sistema di governo deve essere tolta a tutti e mostrare chi mente. Le piattaforme per i sermoni emotivi devono essere ritirate e differenze di luci e ombre in superficie devono lasciare il posto a differenze strutturali e fondamentali. Abbiamo bisogno di un discorso in cui i lavoratori, le masse oppresse e svantaggiate possano misurare le promesse e i discorsi gonfiati con il proprio metro di misura dei bisogni reali. Dove si vede chiaramente la profonda fessura tra la lotta per la sopravvivenza e la lotta per la creazione di un mondo migliore. Dove nessun bandito o ciarlatano può facilmente entrare intestare la proprietà del movimento popolare a suo nome!
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L’altro lato della politica di assorbimento nel sistema dominante è un discorso incentrato sul potere, che riduce le disaffezioni popolari a quella della vita quotidiana. Pur criticando alcune politiche del regime, adotta una posizione “anticlericale” e cerca di allineare le persone dietro un’alternativa che rimane all’interno del sistema. Sottolineando “la necessità della sicurezza nazionale e interna”, essa cerca di porre un freno alle profonde crisi strutturali, politiche e sociali che il regime sta attraversando e spinge ai margini le necessità politiche che ne derivano. Cerca di ringiovanire gli elementi populisti e semi fascisti dell’Islam politico per creare un’alternativa interna all’attuale sistema di governo. Questa corrente ha scoperto che canalizzare il potere del malcontento delle masse atomizzate, e cavalcare la marea della protesta è il modo più compatibile con la sharia di costruire un leader e salvatore (leggi un altro Khomeini senza il turbante).
La corrente centrata sul potere da un lato cerca di incoraggiare uno stato d’animo di passività tra le persone e aumentare la loro sfiducia nel proprio potere. Diffonde inoltre l’idea che il potere del regime e in particolare il potere della “mano nascosta” della sicurezza militare sia assoluto. Nulla si può quindi sperare se non all’interno del sistema, delle sue élite e dei suoi funzionari.
Una “personalità in cerca di potere” emerge sul letto di questa combinazione di stati d’animo di passività e paura che incoraggia uno spirito di rassegnazione, sottomissione e obbedienza da parte di masse pronte ad essere comandate. L’obiettivo di questa tendenza sono i membri più svantaggiati dei poveri, gli strati più bassi e passivi dei lavoratori urbani. Proprio coloro che sono stati le più grandi vittime della povertà materiale e intellettuale.
Se non regnano lo sciovinismo, il populismo e il neofascismo, il mare della povertà contribuirà a diffonderli. Si tratta di una crescita che aumenterà la divisione tra gli strati superiore e inferiore della forza lavoro e creerà una polarizzazione distruttiva all’interno del movimento della classe operaia.
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Passare da un movimento di protesta a un movimento di trasformazione politico-strutturale è oggi una possibilità reale. Questo perché le fasce più basse e svantaggiate della società non sono mai state passive di fronte al peggioramento di condizioni crudeli e oppressive. Lo abbiamo visto nelle numerose lotte dei lavoratori, insegnanti, infermieri, e altri lavoratori poveri negli ultimi anni. Oggi le catene della paura e dell’isolamento si stanno spezzando e la classe dirigente sta perdendo il suo fascino di vendere illusioni e superstizioni. La sua “super intelligenza” è fallita, la classe operaia è più solida e militante e in grado di continuare con le sue battaglie di protesta e i suoi raduni. Nell’attuale clima politico si può sperare che questo movimento si colleghi anche al movimento popolare di protesta e ne aiuti lo sviluppo, promettendo così un movimento di classe progressista.
I movimenti di protesta sono rapidamente andati oltre il loro punto di partenza, proprio perché hanno ottenuto la loro forza trainante da fondamenta materiali e sociali. Ora non sono facilmente controllabili o comandabili. Per questo motivo non sarebbe un errore affermare che ora più che mai è realmente possibile passare dalle azioni di protesta a un movimento di trasformazione politico-strutturale.