Benzina: tagliare le accise o i profitti?

È ormai già dall’inizio dell’anno passato (2022) che assistiamo ad un rialzo dei prezzi delle materie prime dell’energia e della trazione. In questi giorni di inizio 2023, è la benzina a preoccupare più di tutte, visto che, con il nuovo anno, è stato cancellato il taglio delle accise che aveva permesso di moderare un po’ l’aumento dei prezzi. Si prepara dunque una nuova decurtazione ai salari dei lavoratori e delle lavoratrici che vedono aumentare mese dopo mese le spese fisse che devono affrontare per raggiungere i posti di lavoro e tutte le altre zone dove il trasporto pubblico locale, spesso pessimo, non arriva.

Ma cosa sono le accise? Si tratta di imposte sulla fabbricazione e la vendita, in questo caso della benzina. Sono tasse imposte sulle imprese che traggono profitto dalla lavorazione e smercio di questo bene e che i ricchi imprenditori del settore riversano sul prezzo finale; quindi, sulle masse di lavoratori che nell’economia di mercato devono acquistare tutto. Tutti i governi nel capitalismo hanno bisogno delle tasse, che servono a mantenere la pace sociale con l’erogazione (sempre più misera) di servizi sociali, educativi, ambientali e sanitari. Senza questa soglia minima di servizi la classe lavoratrice sarebbe impossibilitata a concludere la giornata lavorativa, sarebbe ridotta alla fame e si ribellerebbe presto. Quindi anche se il governo Meloni dice che cancellare il taglio sulle accise della benzina è stata “una scelta sofferta”, la verità è che l’oltre un miliardo al mese così ricavato gli serve. E se per le imprese questi soldi versati nella forma di accise verranno recuperati nella forma di crediti d’imposta (e quindi a breve di fatto risparmiati), per i lavoratori e le lavoratrici non è previsto nulla del genere. Ancora una volta, ad essere tassato veramente non è il grande capitale, ma le masse.

Inoltre, il prezzo della benzina aumenta a livello internazionale quando aumenta il costo del petrolio. Questo è l’elemento di discussione più importante, che guarda caso manca dal dibattito e dalle comunicazioni dei difensori dell’economia di mercato. Nell’economia di mercato è legittimo alzare i prezzi, così come approfittare di situazioni di necessità per aumentare i profitti. Con il taglio delle accise i profitti delle imprese che lavorano e smerciano la benzina non vengono di fatto toccati, continuano a prosperare. Anche perché se le regole del mercato lo consentono – e in questo periodo lo consentono eccome – loro possono alzare ulteriormente il prezzo di base su cui vengono calcolate le imposte. E le masse pagano e si impoveriscono.

Tagliare le accise non risolverà il problema alla radice: il problema è che nell’economia di mercato il focus è il profitto privato di pochi a discapito di molti. Per difendere gli interessi di mercato si formano raggruppamenti economici e politici, si costruiscono “interessi nazionali”, si cercano di conquistare “spazi economici” con la strategia della tensione e le guerre. Negli ultimi anni la mancanza di crescita, di investimenti, di capacità di ripresa dalla crisi e di competitività economica dell’industria è stata sopperita tramite un salto qualitativo e quantitativo del livello di sfruttamento del proletariato. Si sono svalutati i salari in relazione al potere d’acquisto. La disoccupazione giovanile tocca percentuali record, soprattutto nel meridione. Sono aumentati lavoro precario, età lavorativa, orari e ritmi di lavoro, nonostante il progresso tecnologico. Di conseguenza si assiste a una costante diminuzione della sicurezza sul lavoro, documentata dai dati ufficiali che hanno registrato un aumento di morti e infortuni sul lavoro. Con l’avanzare della crisi gli interessi dei lavoratori e dei padroni sono sempre più inconciliabili. La guerra imperialista in atto, nella quale lavoratori russi e ucraini si ammazzano tra loro per gli interessi dei propri sfruttatori, ne è il ritratto più esplicativo. Il capitalismo non è più in grado neanche di garantire quel minimo di benessere che ha portato lavoratori e lavoratrici all’accettazione della propria condizione di sfruttamento, ma riesce solo a generare una catastrofe dopo l’altra.

Non sarà un eventuale taglio alle accise sulla benzina a salvare la situazione. Occorre ripartire dagli scioperi e prendere coscienza dei rapporti di forza. Siamo di più e siamo più pericolosi. Rivendichiamo un tetto al prezzo della benzina, la redistribuzione immediata dei profitti maturati e la nazionalizzazione senza indennizzo delle aziende che lavorano e smerciano i carburanti, poniamole sotto il controllo dei lavoratori, opponiamoci all’economia di mercato. Così otterremo un reale abbassamento dei prezzi.

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