Di Jorge Altamira
24/10/2022
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La formalizzazione di un terzo governo guidato da Xi Jinping è stata affrontata da diverse angolazioni. Il limite di due mandati per la rielezione di un presidente è stato recentemente abolito, consentendo la possibilità di una rielezione a tempo indeterminato. Xi è stato così consacrato come “grande timoniere” per un mandato che ha di fronte solo il naturale ostacolo dell’età. È anche la fine apparente di una purga per la successione, che ha portato all’imprigionamento di leader di grande influenza politica, come nel caso di Bo Xilai.
L’autosuccessione presidenziale, che sarà finalizzata dal Parlamento l’anno prossimo, si svolge sullo sfondo di una guerra globale. Non si tratta solo dello scenario ucraino ed europeo e di Stati Uniti e Russia. A questo si è aggiunto un confronto militare sull’isola di Taiwan, accompagnato da misure economiche del governo statunitense contro la Cina, che sono un equivalente delle sanzioni applicate alla Russia, esclusa dai circuiti finanziari internazionali. Numerose società cinesi sono state cancellate dalla Borsa di New York e altre sono soggette a restrizioni commerciali. Una serie di recenti regolamenti di Washington incoraggia il rimpatrio di scienziati e tecnici statunitensi che lavorano in Cina e l’espatrio di quelli che lavorano negli Stati Uniti. È stato strutturato un blocco delle attività di ricerca e sviluppo, nonché un divieto di vendita alla Cina di circuiti integrati (chip), un fattore vitale per molte industrie moderne. Xi è stato consacrato presidente di un Paese in guerra, anche se il suo primo mandato nel 2010 è stato inaugurato con discorsi globalisti.
La transizione cinese
La questione della guerra è collegata a un’altra questione, anch’essa decisiva, che è il blocco della transizione economica capitalista. Più problematico dell’allontanamento del predecessore di Xi, Hu Jintao, dal palco del congresso del Partito Comunista è stato il ritardo con cui l’Indec cinese ha reso noti i dati sul prodotto interno lordo. Dopo un calo più lento di quello internazionale nel 2020, quando la pandemia imperversava, la Cina ha registrato un forte recupero nel 2021, fino a scendere sotto la media asiatica nel corso del 2022. I tassi di crescita eccezionali a due cifre appartengono ormai al passato; le previsioni sono di un 4-2%. Anche i dati non sono molto accurati, perché la contabilità nazionale cinese sopravvaluta gli asset industriali. D’altra parte, il Paese sta attraversando una grave crisi immobiliare, che ha colpito tutti i settori legati all’edilizia. Gli investimenti immobiliari sono stati una dinamo dell’economia cinese, al punto da rappresentare il 35% del prodotto interno lordo.
A differenza della Russia, la Cina ha avuto formidabili riserve economiche per alimentare una restaurazione capitalista. Come in Cecoslovacchia e in Germania Est, il capitalismo in Russia ha significato la distruzione dell’industria statale o la sua ricolonizzazione e ristrutturazione da parte del capitale straniero, con la mediazione della burocrazia “sovietica”. La Cina, al contrario, offriva un’abbondante forza lavoro rurale, un’immensa disponibilità di terra, un bacino di capitali provenienti dalla “recuperata” Hong Kong (e Taiwan) e un’eccedenza di capitale internazionale che cercava uno sbocco nell’apertura della Cina. Queste risorse eccezionali sono andate in declino, soprattutto a partire dalla crisi globale del 2007/8.
L’abbondanza di manodopera si è tradotta in un tasso di risparmio (la differenza tra produzione e consumo) senza precedenti, dell’ordine del 50% all’anno. La vendita di terre da parte dei governi regionali e locali, ottenuta attraverso l’espulsione o l’emigrazione dei lavoratori dalle campagne, ha permesso di raccogliere una massa di capitali che ha finanziato un’enorme espansione immobiliare (intere città), nonché investimenti estrattivi e industriali. L’insieme di questi governi rivela una burocrazia dirigente di decine di milioni di persone, che in molti casi è passata a gestire privatamente le imprese coinvolte.
Per oltre vent’anni, gli investimenti diretti esteri hanno superato in media i 50 miliardi di dollari all’anno. L’espansione dell’industria siderurgica cinese ha eguagliato l’intera produzione del resto del mondo, creando uno spreco fenomenale in un settore che era già in eccessiva espansione a livello internazionale. L’investimento sommerso, cioè quello che non ha avuto alcun ritorno economico, è stato incalcolabile.
Gli scioperi, le manifestazioni e gli “incidenti” di ogni tipo causati dall’enorme tasso di sfruttamento della classe operaia, così come le espulsioni dei contadini, hanno mostrato i limiti insormontabili di un’economia basata su una forza lavoro a basso costo. La deflazione globale, tuttavia, fino alla vigilia della pandemia, ha sistematicamente costretto la burocrazia al potere a mantenere e rafforzare questo livello di sfruttamento per poter competere a livello internazionale. Il calo del tasso di crescita dell’economia cinese, che ha iniziato a manifestarsi progressivamente, ha messo in luce l’esaurimento delle eccezionali riserve di questo processo di restaurazione capitalistica, unico nel suo genere (come in Vietnam).
“Prosperità condivisa”
La crisi della transizione cinese si manifesta nello slogan che Xi è arrivato a brandire: “prosperità condivisa”, una variante dell'”economia del popolo”. La portata dello slogan mostra i suoi limiti. Non propone un sistema di tassazione fortemente progressivo della proprietà capitalistica o un aumento generalizzato dei salari. Esprime l’intenzione di far intervenire lo Stato per contenere una crisi generale che deriverebbe dall’esplosione di attività speculative e immobiliari e dalla sovrapproduzione industriale. L’elenco dei fallimenti annunciati comprende in particolare i fondi finanziari degli enti locali, che hanno contratto un debito inimmaginabile di 8.000 miliardi di dollari – la metà del PIL della Cina. Questi fondi non possono andare in default senza mandare in bancarotta l’intera economia, ma un intervento dello Stato nazionale non farebbe altro che spalmare questo fenomeno nel tempo, al costo di un rallentamento economico straordinario. Lo stesso Stato nazionale ha accumulato un debito pubblico che si avvicina al 300% del prodotto interno lordo.
Un altro aspetto della crisi di transizione è l’impasse sulla cosiddetta Via della Seta, una serie di investimenti infrastrutturali in numerosi Paesi per far muovere le grandi imprese di costruzione cinesi. L’indebitamento dei beneficiari di questi investimenti ha portato a un numero crescente di inadempienze, come in Pakistan, Sri Lanka e in diversi Paesi africani. Come se non bastasse, il debito nei confronti della Cina coincide con quello nei confronti di altri governi, tanto che è scoppiata una disputa sulla rinegoziazione. L’annuncio dell’imperialismo cinese è, a quanto pare, ancora prematuro.
La burocrazia a un bivio
C’è chi si vanta del fatto che, data la gravità della crisi, la Cina potrebbe tornare al “comunismo”, cioè la ri-statalizzazione dell’economia. Le grandi imprese private occupano un ruolo preponderante tra le aziende più grandi della Cina. Xi non sembra avere in mente una simile alternativa, perché in tal caso dovrebbe espropriare parte della burocrazia stessa. D’altra parte, nel suo discorso di chiusura del congresso, Xi ha fissato l’obiettivo di internazionalizzare la moneta cinese, cioè di trasformarla in una valuta di riserva. Oltre a confondere il comunismo con la nazionalizzazione, la proposta non si rende conto che si tratterebbe di un’operazione di salvataggio del capitale e della transizione. Il comunismo non è nazionalizzazione, ma trasformazione dei rapporti sociali nel loro complesso, in primo luogo dei rapporti di produzione, attraverso l’attività emancipatrice della classe operaia.
Il corso della transizione cinese, che non è mai stato un fenomeno puramente nazionale, è interamente determinato dalla crisi mondiale e dalla guerra. Ovvero, da un estremo confronto internazionale tra le classi antagoniste della società capitalista. Prodotto dell’acutizzarsi di queste contraddizioni, il dominio del potere personale che la burocrazia intende installare senza limiti sarà minato da un ulteriore acutizzarsi di queste stesse contraddizioni.
Testo originale: https://politicaobrera.com/8170-adonde-va-china