Intervento di Prospettiva Operaia al dibattito internazionale sulla guerra imperialista

Pubblichiamo di seguito l’intervento della nostra compagna Delia all’iniziativa di discussione UN DEBATE INTERNACIONAL SOBRE LA GUERRA IMPERIALISTA, che si è tenuta lo scorso 25 giugno, organizzata insieme a Política Obrera (Argentina), Partido Obrero Revolucinario (Chile), Grupo Independencia Obrera (España), Partido de los Trabajadores (Uruguay).
Buona lettura!

Care compagne e cari compagni,

La precipitazione della crisi capitalista negli ultimi due anni che ha visto protagonisti sullo scenario mondiale prima la pandemia e adesso la guerra imperialista conduce il proletariato e l’umanità intera di fronte a una nuova fase.

L’Europa è entrata in questo conflitto nell’epoca della decadenza dei suoi imperialismi, in una condizione di debolezza politica ed economica e in una fase di disgregazione, che era già in atto da tempo. Oggi la dipendenza energetica da parte della Russia e di altri paesi extraeuropei ha amplificato gli effetti della crisi economica per gli stati europei, storicamente poco dotati di materie prime, incidendo in maniera significativa sulla produzione, sulla crescita prevista negli anni scorsi, con lo spettro della stagflazione che si aggira nel vecchio continente. La questione dell’energia era un argomento cruciale già da prima del conflitto, su questo tema esistevano già sostanziali divergenze tra i vari stati, differenze che oggi inaspriscono le divisioni interne all’Unione Europea e alla NATO stessa. Solo per fare qualche esempio, le compagnie del gas Uniper dalla Germania (già in crisi per la situazione del mega gasdotto Nord Stream 2, e obiettivo da colpire, per l’imperialismo USA, nei suoi rapporti commerciali con la Russia) e ENI dall’Italia hanno aperto conti bancari in rubli per non rischiare riguardo le importazioni di gas dalla Russia visto che le differenti posizioni degli stati UE hanno costretto all’incertezza e all’amiguità normativa anche la Commissione Europea, mentre altri stati UE, con in testa la Polonia, rifiutano tale opzione. L’Ungheria pone continui veti alle sanzioni economiche nei confronti della Russia mentre la Lituania adopera quest’ultime per bloccare i rifornimenti di merci a Kalinigrad.

Il governo italiano d’unità nazionale guidato dall’ex presidente della BCE Draghi è stato tra i primi ad appoggiare il conflitto ed è uno di quelli che ha stanziato più aiuti militari all’Ucraina. Tuttavia, la borghesia italiana non è del tutto unita in questa guerra. Come già successo per la pandemia, le PMI sono quelle che soffrono maggiormente le sanzioni economiche contro la Russia in termini di rapporti commerciali e l’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime, e soprattutto gli aumenti dei costi energetici. Al contrario, la grande industria italiana ha già avviato una fase di investimenti in Ucraina per la “ricostruzione” del paese. Lunedì scorso, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi è volato a Kiev per andare a discutere delle opportunità offerte dalla guerra, come il ministro degli esteri ucraino Kulebale le ha definite cinicamente durante l’incontro. 

Di conseguenza, all’interno del governo si sono create alcune divisioni, anche se puramente di facciata. Il PD, l’erede diretto del PCI stalinista, che oggi rappresenta più di ogni altro il partito del grande capitale, è la forza più dichiaratamente atlantista e favorevole all’invio di armi in Ucraina e a qualsiasi provvedimento economico antirusso. Il M5S, la forza più in crisi di tutte, si sta scindendo in due blocchi, il primo guidato dal ministro degli esteri Di Maio che corre anch’esso con il massimo entusiasmo tra le braccia della NATO, un’altra (rappresentata dall’ex premier Conte) più fedele alla natura piccolo borghese che aveva caratterizzato le origini del movimento e che si pone su un terreno più pacifista. La Lega, che ha sempre avuto il proprio bacino elettorale tra la piccola e media impresa del nord, terrorizzata dal calo di consensi continuo, mostra, visto l’avvicinarsi delle prossime elezioni politiche il prossimo anno, una linea più moderata sulla guerra. In ogni caso, si tratta di false opposizioni che, vivendo principalmente di dichiarazioni stampa, e mai di strappi quando ci sono da votare i provvedimenti dell’esecutivo, non hanno scalfito minimamente la linea guerrafondaia del governo Draghi.

Il governo italiano, come gli altri governi europei, può tra l’altro ovviamente contare su un sistema dell’informazione di massa completamente al servizio dell’imperialismo, per cui chi si permette di avanzare critiche, anche semplicemente da un punto di vista accademico o pacifista, alle potenza occidentali per le loro acclarate manovre, politiche e militari, nello spazio ex-sovietico e nel Pacifico (in chiave anti-Cina), viene ridicolizzato e umiliato nei talk-show televisivi e sui giornali, mentre l’assassina NATO diventa un’organizzazione di liberazione dalle tirannie e gli USA e l’UE i regni della democrazia e della libertà.

La crisi, però, non sta riguardando solo l’informazione, la borghesia e il parlamento che la rappresenta, ma si è riflessa in maniera ancora più forte sul proletariato e sulla sua direzione. Il movimento operaio è entrato in questa nuova fase completamente impreparato con alle spalle un sostanziale deserto di lotta di classe e diverse sconfitte storiche. I maggiori responsabili di tale situazione sono senza dubbio i sindacati e i partiti della sinistra, in pratica quelli che dovrebbero costituire la direzione del proletariato. Tralasciando il ruolo già accennato della sinistra post-stalinista e confindustriale, ciò che rende per ora difficile la costruzione di un ampio movimento popolare contro la guerra è l’errata caratterizzazione politica del conflitto in corso, spogliato del suo carattere storico e globale, e nella maggior parte dei casi ridotto a una semplice guerra d’invasione di Putin, una versione che, al di là di qualche limatura per differenziarsi, ricalca la narrazione governativa. È questa la caratterizzazione che, per esempio, accompagna il pacifismo della CGIL, il più grande sindacato italiano, il quale paralizza la classe operaia italiana di fronte alla guerra.

La CGIL, infatti, avrebbe per le sue dimensioni la possibilità di coinvolgere diversi settori del mondo del lavoro in mobilitazioni contro la guerra ma non si spinge oltre i comizi dei propri dirigenti e qualche articolo nei propri organi d’informazione, dove a parole mostra la propria contrarietà alla guerra, all’invio di armi e alla crescita del riarmo del nostro paese ma poi rifiuta qualsiasi prospettiva di sciopero contro di essi. La CGIL si sta contraddistinguendo per il proprio pacifismo sterile e inoffensivo. Tra l’altro le rivendicazioni provenienti dal sindacato prevedono il “cessate il fuoco” e una “vera azione diplomatica” da parte dell’Unione Europea; ma è la stessa Unione Europea che ha aumentato la spesa bellica e ha schierato le truppe ai confini con l’Ucraina e la stessa Unione Europea nata storicamente nel contesto controrivoluzionario di burocratizzazione crescente e infine dissoluzione dell’Unione Sovietica che ha come tappa necessaria una nuova guerra imperialista mondiale.

Tuttavia, nonostante il vuoto teorico e il deserto della lotta di classe, stiamo assistendo a dei segnali, seppur deboli, di controtendenza da parte del sindacalismo conflittuale. Lo sciopero unitario del sindacalismo di base del 20 maggio scorso è stato il primo tentativo europeo di “sciopero generale” contro la guerra in Ucraina, tra l’altro indetto in un paese di quelli che partecipano in maniera più attiva al conflitto (150 milioni di euro per l’invio di armi all’esercito di Zelensky nella sola prima tranche di aiuti militari, a cui si va aggiungendo quella attualmente in discussione al parlamento).

La sinistra pacifista, che in tale contesto mostra ancor di piu la sua matrice reazionaria, non contempla la mobilitazione dei lavoratori come strumento di lotta alla guerra. Anche in Italia poi, sebbene con un ruolo molto minoritario esiste una sinistra politica e sindacale erede dello stalinismo di tipo “campista”, la quale attribuisce alle politiche del Cremlino, compresa l’operazione in Ucraina, un ruolo progressivo per le masse. Dal lato opposto, gran parte della sinistra che si rivendica di classe e in particolare il sedicente “trotzkismo” ne stanno uscendo disintegrate tra posizioni più apertamente filo-imperialiste, che rivendicano la resistenza ucraina (la fanteria della NATO in terra ucraina) contro l’imperialismo russo e non riescono a schierarsi senza ambiguità neanche contro l’invio di armi, e altre che si pongono in chiave di opinione critica, mantenendo così una sorta di neutralità e de-responsabilizzazione nei confronti della guerra che l’imperialismo sta muovendo contro il proletariato.

La trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione è invece l’unica strada percorribile per il proletariato. Compito dei rivoluzionari è  infiammare la mobilitazione di massa, cioè manifestazioni e scioperi contro la guerra imperialista; fare appello all’unità dei proletari dell’Ucraina e della Russia contro Putin, contro la NATO, contro l’imperialismo mondiale! Così come rivendicare, oggi ancor di più (al contrario di quanto afferma la sinistra riformista e centrista) una lotta operaia internazionale per il rovesciamento dei governi capitalisti, e la loro sostituzione con Repubbliche Operaie indipendenti e socialiste.

L’imperialismo ha bisogno di una vittoria militare, politica, economica per riconquistare l’autorità perché gli stati in guerra e quelli che li sostengono si trovano in crisi politiche insormontabili. Al contrario, i lavoratori hanno bisogno, oggettivamente, di sconfiggerlo per avanzare nella lotta per le loro rivendicazioni e la loro emancipazione. 

Per porre fine all’imperialismo è necessaria una lotta indipendente dei lavoratori, che diventi rivoluzionaria. Uniamoci per sconfiggere la guerra imperialista attraverso la lotta di classe e la rivoluzione socialista!

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