“Il fascismo è un’organizzazione di lotta della borghesia nel momento e per i bisogni di una guerra civile” (L. Trotsky)
La giornata del 25 aprile rappresenta per noi sì la memoria della liberazione dalla ventennale dittatura fascista ma anche la denuncia che tale dittatura fu imposta alle classi popolari italiane dagli stessi padroni e grandi capitalisti che poi appunto il 25 aprile del 1945 sfoggiavano coccarde antifasciste. Il 25 aprile è la storia eroica di chi è caduto con le armi in pugno per costruire una società nuova, liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalla dittatura dei banchieri e degli industriali.
Perché Mussolini non cadde per un colpo di Stato interno al Gran consiglio del fascismo ma sotto la pressione poderosa della lotta di classe e grazie al coraggio e allo spirito di abnegazione e di sacrificio di tanti giovani proletari che insorsero senza aspettare ordini o direzione, liberando quartieri e città (esemplificativo il caso delle “quatto giornate di Napoli”).
Il 25 aprile segna un momento topico all’interno di un articolato processo rivoluzionario che avrebbe certamente condotto l’Italia verso una prospettiva socialista se la direzione politica del proletariato, innanzitutto il Partito Comunista Italiano, fosse stata all’altezza dei suoi compiti storici. Ma ciò non avvenne perché il PCI, divenuto durante gli anni bui della controrivoluzione stalinista, una sorta di ambasciata di Mosca in Italia, non poteva e non aveva nessuna intenzione di tentare “l’assalto al cielo”. La Terza Internazionale stalinizzata, passata da Comintern a Cominform, svolse il ruolo oggettivo di baluardo della controrivoluzione a livello mondiale. In Italia Togliatti rientrò con precise direttive da Mosca: la rivoluzione italiana doveva fallire perché l’Italia doveva rientrare tra i paesi sotto la protezione strategica degli Stati Uniti d’America, quindi il PCI, sordo alla spinta delle classi popolari, doveva portare avanti una politica di collaborazione di classe con lo stesso nemico che per due decenni aveva alimentato, finanziato e armato le squadre fasciste e poi il regime stesso. Con la “svolta di Salerno” Togliatti impone la smobilitazione delle fabbriche occupate, il disarmo delle formazioni spontanee di combattenti comunisti non inquadrate nel PCI, la pacificazione nazionale che avrebbe portato alla vergognosa amnistia per tutti i fascisti.
Anche grazie al PCI del “peggiore”, a pochi mesi dalla caduta del fascismo i prefetti fascisti, gli ufficiali dell’esercito mussoliniani, i magistrati di regime, la classe dominante del ventennio, era saldamente tornata al potere dello Stato.
Il 25 aprile rappresenta da un lato la manifestazione dello straordinario coraggio e l’incredibile senso di abnegazione della nostra classe, dall’altro il fallimento criminale dello stalinismo italiano e mondiale.
Il “biennio rosso” italiano, che ha preceduto (e scatenato) l’avanzata fascista ha poi dimostrato ancora una volta che senza partito rivoluzionario non può esserci vittoria nella rivoluzione. Con il senso delle proporzioni e dei nostri mezzi, Prospettiva Operaia vuole contribuire a costruire quel partito per permettere ai lavoratori e alle lavoratrici di vincere le titaniche lotte che si prospettano.
La natura sociale e le ragioni di classe del fascismo
Le condizioni in cui il fascismo si sviluppò e riuscì a consolidarsi al potere erano quelle di un capitalismo che viveva già la sua fase decadente. La tendenza e l’affermarsi dei monopoli si rifletterono in prima istanza sull’attenuazione di un capitalismo di tipo concorrenziale, da sempre la giustificazione storica del capitalismo, e segnarono il declino delle classi medie ma anche l’impossibilità di continuare ad illudere il proletariato riguardo un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Ogni seria analisi della società deve partire dai rapporti tra le classi. Se al sorgere del capitalismo la borghesia aveva bisogno di metodi rivoluzionari per affermarsi e durante il periodo di suo sviluppo e maturazione traduceva il proprio dominio in forme pacifiche e democratiche, nella fase decadente del capitalismo la borghesia è costretta ad utilizzare metodi da guerra civile per difendersi dal proletariato. Il grande capitale, la grande borghesia, non rappresenta però che una minoranza esigua della società ed ha quindi bisogno del sostegno e dell’utilizzo delle masse popolari piccolo-borghesi (e anche di una parte, per quanto minoritaria, del proletariato) per combattere e tenere in piedi il proprio sistema di sfruttamento.
Ma a differenza della lettura semplicistica dei partiti comunisti ufficiali che leggevano i fascismi come tipica reazione borghese del momento, Trotsky sottolineava come a tal fine, il mantenimento del proprio dominio, il grande capitale dovesse mobilitare, far insorgere, armare, la piccola borghesia e ciò a suo rischio e pericolo perché il sostegno della piccola alla grande borghesia non si basa affatto su sentimenti di fiducia e fraternità. La piccola borghesia è pur sempre una classe diseredata, maltrattata, umiliata, all’interno del sistema di dominio borghese, del capitalismo. Nel suo articolo “La sola via” Trotsky sottolinea: “pur servendosi del fascismo, la borghesia ne ha paura”. Il fascismo basò il suo programma sulla demolizione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, sulla distruzione delle riforme sociali e di qualsiasi protagonismo della classe lavoratrice nella produzione ma anche sul completo annientamento dei diritti democratici. Con la Grande Guerra imperialista era iniziato il declino della forma democratica e pacifica di dominio del capitalismo, in particolar modo tra quelle che saranno le nazioni sconfitte e quasi-sconfitte come l’Italia. Non c’era più spazio per riforme e contentini economici alla classe lavoratrice e il dominio della borghesia non solo entra in guerra con gli strumenti della democrazia proletaria ma anche in contraddizione con gli istituti della democrazia borghese. Da qui il doppio attacco del fascismo contro il marxismo e contro il parlamentarismo.
Nella sua analisi del fascismo Trotsky individua due elementi che lo caratterizzano rispetto ad altre forme di reazione borghese. In primo luogo, esso nasce all’esterno delle istituzioni borghesi, è un movimento di massa con proprie organizzazioni armate (le Camicie Nere in Italia, le SA e SS in Germania), cosa che lo differenzia ad esempio dai golpe militari che avvengono per mano di pezzi dello Stato, e senza una base di massa. Sebbene non si opponga allo Stato borghese ma ne è anzi strumento di difesa, nelle sue fasi iniziali il fascismo schiera gruppi dirigenti di origini “plebee” non appartenenti alle classi dominanti. È una volta arrivato al potere che esso si integra pienamente con l’apparato statale, si “istituzionalizza”. In secondo luogo, il fascismo si distingue per la sua capacità di atomizzare il movimento operaio, annientando le sue organizzazioni, tutte, quelle comuniste e quelle socialdemocratiche (particolare non compreso dal comunismo ufficiale guidato da Mosca dopo l’uscita di scena del protagonismo politico di Lenin e che porterà alla folle teorizzazione del “socialfascismo”).
La grande borghesia capitalista italiana è rimasta una forza autonoma all’interno del fascismo, perseguendo i suoi fini specifici pur servendosi prima delle camicie nere e poi dello Stato totalitario fascista. Dopo la guerra imperialista mondiale del 1914-18, il capitalismo, nel suo insieme, era appunto in fase discendente e sull’onda della rivoluzione russa gli operai, strappati già miglioramenti considerevoli (salari più elevati, giornata lavorativa di otto ore, generalizzazione dei contratti collettivi), e i contadini poveri italiani, reagirono a tale crisi con le occupazioni di fabbrica (in cui è coinvolto oltre mezzo milione di soli metallurgici) e delle terre, in cui fanno esperienza di una gestione proletaria della produzione. La classe capitalista necessitava della mano forte, doveva servirsi, con tutti i rischi che ciò comportava, della “reazione”, per mano degli squadristi organizzati dai Fasci di combattimento.
Finanziatori e manovalanza
I maggiori sostenitori economici del movimento fascista sono stati (oltre ai grandi possidenti agrari) i magnati di quella che viene definita “industria pesante” (metallurgica, mineraria, ecc…) e i banchieri che in essa avevano concentrato i propri interessi, molto più che il padronato dell’ “industria leggera” (tessile, alimentare, ecc…). Questo perché si trattava di due tipologie di imprese con un peso molto differente nella società per cui se la congiuntura economica è sfavorevole o se aumentano gli scioperi, le conseguenze sull’industria pesante sono molto maggiori e poiché non si possono ridurre le spese fisse (“capitale costante”) non rimane che comprimere le spese per la mano d’opera (“capitale variabile”): la drastica riduzione dei salari e l’abolizione delle tutele sindacali diventano un’impellente necessità, il fascismo sarà lo strumento attraverso il quale la si otterrà. Inoltre sul piano della politica estera, per l’industria pesante furono fondamentali per salvare i propri profitti le commesse militari sia dello Stato italiano che delle nazioni “amiche” ed anche per questo fu maggiormente favorevole ad una politica di forza e di avventura imperialista rispetto ad un’industria leggera grandemente improntata all’esportazione di prodotti per uso civile e alla collaborazione tra paesi essendo molto legata alla finanza internazionale. Ciò non significa che questa seconda fetta del padronato assunse un ruolo di contrasto al fascismo, innanzitutto perché si trattava di un movimento a favore delle classi possidenti contro il socialismo ed andava quindi, se non sostenuto, lasciato fare, e poi perché ha anch’essa creduto che la sua “parlamentarizzazione” avrebbe favorito successivamente un processo di pacificazione sociale. Il capitale industriale italiano si trovò quindi unito dalla parte del fascismo.
Ma il movimento fascista non poteva vivere e conquistare il potere con i soli finanziatori, occorrevano soldati. Perché il fascismo è sì strumento della grande borghesia ma è anche sollevazione della piccola borghesia (furiosa per la crescente pauperizzazione che la vedeva protagonista). Ciò non senza responsabilità della direzione del movimento operaio perché le forze socialiste si dimostrarono cieche dinanzi al fatto che le classi medie impoverite e il proletariato sviluppavano contro il grande capitale interessi in comune. Il proletariato avrebbe dovuto accattivarsi le classi medie rendendole convinte della sua capacità di condurre la società verso una nuova strada, con la forza e la sicurezza dell’azione rivoluzionaria e del programma socialista, non abbandonarle tra le braccia della reazione a causa dell’indecisione e degli errori delle proprie dirigenze. Le classi medie furono vittime allo stesso tempo dell’evoluzione e della crisi del capitalismo nello sviluppo della sua fase monopolista, risentendo degli effetti dapprima della concorrenza e poi della concentrazione. Gli stipendi dei funzionari statali e degli impiegati in generale, con la caduta della lira degli anni ’20, vengono ricalcolati in modo drammatico, la diminuzione del potere d’acquisto delle masse riduce il volume d’affari dei piccoli commercianti, la concorrenza del capitalismo monopolistico riduce sul lastrico i piccoli produttori indipendenti. Tutto ciò mentre il proletariato ottiene, grazie all’azione sindacale e alle proprie forme di lotta autorganizzata, una parziale rivalutazione dei salari, oltre che una serie di garanzie sociali. Le classi medie iniziano a guardare con odio il proletariato.
Nondimeno si tratta delle stesse classi medie che non nutrono alcuna simpatia nei confronti della grande borghesia e poiché i loro interessi sono in contrasto con quelli del grande capitale industriale e finanziario (internazionale, da cui la difesa di un’immaginaria patria da difendere) si può sostenere che esse attraversino una fase anticapitalistica. Ma, poiché le classi medie non sono vittime dello sfruttamento del lavoro ma della concorrenza esasperata e poi della concentrazione monopolista, e poiché esse sono legate in maniera spasmodica al loro piccolo privilegio rifiutando come la morte la condizione proletaria (per quanto può arrivare a guadagnare meno di un operaio, un commerciante si sente superiore ad esso come condizione sociale), il loro anticapitalismo è molto diverso da quello del proletariato, non volge lo sguardo al futuro ma al passato, non è rivoluzionario ma reazionario.
È ben noto ad ogni marxista serio che l’eterogeneità delle classi medie fa assumere loro una posizione intermedia tra le due classi fondamentali della società, borghesia e proletariato, non potendo sviluppare una propria politica coesa, indipendente e coerente. Anche la loro rivolta quindi non riveste carattere autonomo e può orientarsi o verso il sostegno alla borghesia o verso il sostegno al proletariato. Negli anni ’20 del secolo scorso, anche per gravi responsabilità della direzione tentennante del movimento operaio come detto, sappiamo bene com’è andata. Quando nel 1920 i metallurgici occupano le fabbriche sono seguiti con simpatia da una buona parte della piccola borghesia. Ma il Partito Socialista si rivela assolutamente incapace di guidare lo slancio rivoluzionario delle masse e portare lo scontro fino in fondo. “Guai al partito rivoluzionario che non sappia essere all’altezza della situazione” ammoniva Trotsky sempre nell’articolo “La sola via”, continuando:
“La piccola borghesia può rassegnarsi temporaneamente alle crescenti privazioni, se, sulla base della propria esperienza, si convince che il proletariato la può guidare su una nuova strada. Ma se il partito rivoluzionario, nonostante il continuo acutizzarsi della lotta di classe, si dimostra ancora una volta incapace di riunire attorno a sé la classe operaia, oscilla, si smarrisce, si contraddice, allora la piccola borghesia perde la pazienza e comincia a vedere negli operai rivoluzionari i responsabili delle sue miserie […] compare allora un partito il cui scopo immediato è di scatenare la piccola borghesia e di indirizzare il suo odio e la sua disperazione contro il proletariato […] La politica del riformismo toglie al proletariato la possibilità di dirigere le masse plebee della piccola borghesia e perciò stesso le trasforma in carne da cannone del fascismo”.
Se il proletariato fosse rimasto saldamente rivoluzionario, risoluto a trasformare radicalmente l’assetto sociale, indicando quindi una via d’uscita anche alla ormai miserabile condizione della piccola borghesia, quest’ultima avrebbe volto ad esso il proprio sguardo.
Daniel Guérin, nella sua opera “Fascismo e Gran Capitale”, ricorda come parallelamente poi, anche nelle campagne, il comportamento del Partito Socialista fu speculare all’atteggiamento portato avanti nelle fabbriche, e invece di rivendicare la divisione delle terre per attirare a sé il mondo contadino in quel momento specifico, attaccando direttamente la grande proprietà agraria, non osa impegnare la lotta contro i grandi agrari e maschera la sua inerzia dietro una fraseologia ultrasinistra. A un congresso della Federazione dei lavoratori della terra un dirigente socialista arriva a dichiarare che i socialisti italiani “sono più rivoluzionari dei bolscevichi, che hanno tradito il socialismo distribuendo la terra ai contadini”. Così i contadini finiscono tra le braccia dei proprietari terrieri, che sono furbi a non utilizzare un partito conservatore tradizionale, il quale non conquisterebbe molto facilmente i contadini, ma una formazione politica di nuovo genere, i fasci, che si proclamano “rivoluzionari”, riprendono la parola d’ordine demagogica della terra a chi la lavora e in combutta con i latifondisti donano qualche migliaio di ettari a coltivatori individuali. Naturalmente si tratta dei terreni peggiori, lo scarto del latifondo.
Demagogia ed economia fasciste
Benché rappresenti uno strumento di salvataggio del capitale, il fascismo non può, per risultare attrattivo in quel frangente storico e distinguersi quindi dai tradizionali partiti borghesi, non ricorrere ad un anticapitalismo di maniera, un anticapitalismo demagogico. Ma, essendo, come abbiam detto, tale anticapitalismo reazionario e non rivoluzionario, esso si sforza di non colpire realmente il sistema padronale, convogliando il sentimento anticapitalista delle masse nel più becero nazionalismo. Il nemico è il capitalismo straniero, non il proprio, la concorrenza esasperata e la concentrazione dei grandi gruppi industriali, non l’economia di mercato.
Ad ogni modo, per controllare lo sviluppo fisiologico del mercato, il capitalismo monopolista, è necessario uno Stato commerciale chiuso ed autarchico, con il controllo del commercio estero, la facoltà di fissare i prezzi delle merci e con le categorie di lavoro organizzate in corporazioni. Ed è proprio nell’ingannevole illusione di corporazioni del lavoro che comprendano padroni e dipendenti che Mussolini promette ai lavoratori che nell’ambito delle corporazioni i loro padroni li tratteranno come i maestri di bottega delle corporazioni medioevali trattavano i loro dipendenti, collaboratori della produzione. Alla vigilia della Marcia su Roma, afferma Mussolini in un suo proclama: «Le genti del lavoro… nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati». Così come nel suo discorso per la fondazione dei Fasci (23 marzo 1919) Mussolini mantiene un linguaggio volutamente pregno di quell’ambiguità che lo ha sempre caratterizzato: «Noi vogliamo mettere progressivamente in grado la classe operaia di dirigere le imprese, magari soltanto per persuaderla che non è facile condurre un’industria o un commercio».
Ma proprio perché il fascismo è ambiguo e camaleontico, proprio dopo la marcia su Roma, il governo costituito da Mussolini non può affatto soddisfare i cosiddetti “plebei fascisti”, che sognavano la sostituzione definitiva della vecchia classe politica con i precursori fascisti di un nuovo Stato corporativo totalitario. Invece i ministri fascisti sono circondati da rappresentanti di quest’ultima, come il generale Diaz, ministro della guerra, l’ammiraglio Thaon di Revel, ministro della marina, il liberale Gentile alla pubblica istruzione, ecc. Ma senza base sociale, senza i plebei, il fascismo non rappresenterebbe più sé stesso, cioè un movimento con base di massa, e resterebbe sospeso nel vuoto di un potere fragile, annientabile da una congiura dei suoi rivali. Così è costretto, in qualche misura, a farsi interprete delle esigenze e delle aspirazioni dei suoi gregari plebei, sovrapponendo sempre più lo Stato fascista a quello tradizionale. Il 13 gennaio 1923 Mussolini contrappone al Consiglio dei ministri un “Gran consiglio del fascismo” (fondato a dicembre 1922 come organo del PNF e dal 1928 massimo organo costituzionale) composto dai principali dirigenti del partito. Il Gran consiglio decide, in una delle sue prime sedute, di costituire accanto all’esercito regolare la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dipendente personalmente dal Capo del governo. Nascono la polizia segreta – Ovra – e il Tribunale speciale, istituito con legge del 26 novembre 1926. Tra il 1925 e il 1926 tutti gli altri partiti sono destinati a scomparire. I quadri dell’esercito vengono rinnovati, numerosi ufficiali vengono rimossi e sostituiti con elementi devoti al fascismo.
Ma è proprio a questo punto che il padronato rimette immediatamente la briglia ai fascisti plebei, ai fascisti di movimento. In barba a qualsiasi fasulla retorica rivoluzionaria, che anche i neofascisti di oggi pretendono di sbandierare, il movimento fascista, per sua natura, non poteva evolversi in nessun altro modo. I magnati del capitale non avevano finanziato e favorito in tutti i modi il suo sviluppo, e cambiato personale politico, per affidare la difesa dei loro interessi ad agitatori e demagoghi, pretendono l’immediato rientro nei ranghi. Dopo l’assorbimento dello Stato nel partito fascista, abbiamo ora l’imbrigliamento del partito ad opera dello Stato fascista. I fascisti che hanno un ruolo all’interno dell’apparato statale sono esclusivamente quelli più docili e servienti, i fascisti ritenuti meno addomesticabili (tra cui molti di quelli che hanno partecipato alla marcia su Roma) vengono addirittura espulsi dal partito (con epurazioni già nel 1923, 1925, 1926, 1928), divenuto ormai un semplice strumento dello Stato, un organismo burocratico senza vita propria, mentre le milizie fasciste, anch’esse epurate, vengono praticamente ridotte all’impotenza e subordinate all’esercito regolare. La “Confederazione dei sindacati fascisti” viene sciolta e il suo segretario generale, Rossoni, viene allontanato dalla scena politica insieme a tutti i plebei “sindacalisti”. Insomma, reggendosi sempre meno sulle masse popolari in tutti i settori dello Stato e della società, la dittatura fascista si avvicina sempre più alle altre forme di dittatura militare-poliziesca.
In economia la preoccupazione dello Stato fascista, attraverso le proprie misure economiche e sociali, è arrestare la caduta dei profitti e garantire la redditività delle imprese. Ciò innanzitutto attraverso un’azione diretta costantemente contro la classe operaia, creando le condizioni che consentano l’abbassamento dei salari: distruzione dei sindacati operai, soppressione delle loro istituzioni nella fabbrica come le commissioni interne, abolizione del diritto di sciopero, annullamento dei contratti collettivi, istituzione di un arbitrato obbligatorio per le controversie di lavoro che altro non era che una forma di soppressione di ogni forma di conflitto operaio per mezzo di sentenze arbitrali funzionali alla volontà padronale. Lottare contro il padronato significa ora essere nemici dello Stato!
Anche per quanto riguarda le organizzazioni maggiori del mondo del lavoro, quelle sindacali, la politica del fascismo è spietata. Una volta fondati i “sindacati” fascisti, vengono adottate tutte le possibili “forme di pressione” per costringere i lavoratori ad aderire ad essi. Nelle campagne i proprietari non danno lavoro ai braccianti che non aderiscono e le banche non forniscono credito ai coltivatori se non aderiscono. In questo modo i sindacati “rossi” vengono gradualmente paralizzati. Nell’industria si scatena lo squadrismo nero e i fasci, entrati un po’ ovunque in possesso delle liste degli iscritti ai sindacati, ricorrono a minacce e vessazioni contro di essi perché abbandonino le proprie organizzazioni e aderiscano ai sindacati fascisti. Per gli aderenti poi ai sindacati “rossi” si ricorre direttamente alla persecuzione e alla violenza fisica. I padroni così, come già accaduto nelle campagne, iniziano ad assumere solo gli operai muniti della tessera sindacale fascista. Fino agli accordi “di Palazzo Chigi” del 1923, in cui si stabilisce il riconoscimento ufficiale dei “sindacati” fascisti da parte delle organizzazioni padronali, e gli accordi “di Palazzo Vidoni” del 1925, in cui la Confederazione generale dell’Industria riconosce ai sindacati fascisti un monopolio esclusivo: essi soltanto potranno stipulare contratti collettivi di lavoro (fino allo svuotamento totale della loro funzione). Le federazioni sindacali ancora esistenti vengono sciolte, i loro beni confiscati. Alla fine del 1926 anche la Cgl, che esisteva ormai solo di nome, viene a sua volta definitivamente sciolta. Per rendere l’idea di come funzioni sotto il fascismo il mondo del lavoro: per redigere i cosiddetti “contratti collettivi”, il Ministero delle corporazioni li scrive a Roma uniformandosi alle direttive padronali e poi invia i testi ai funzionari “sindacali” di regime che devono limitarsi a firmare a nome delle rispettive organizzazioni. Il padronato ha così raggiunto uno dei suoi principali obiettivi: sostituire i vecchi salari contrattualizzati nazionalmente con salari aziendali. I contratti che essi impongono ai loro dipendenti tramite lo Stato fascista non possono infatti esser considerati “nazionali” perché contengono sì clausole (pessime per i lavoratori) valide su scala nazionale ma non quelle concernenti i salari.
- La montatura dello Stato corporativo
La vera essenza del regime è quella di una dittatura del grande capitale. Molto prima della conquista del potere, il fascismo offriva agli operai la prospettiva delle “corporazioni”. Una volta al potere i fascisti “plebei” creano anche su questo serie difficoltà alla dittatura perché vorrebbero difendere la battaglia del “corporativismo”. Essi sognano di assorbire in un’unica organizzazione, in una vasta macchina corporativa da loro diretta, sia il Capitale che il Lavoro. Esigono infatti la sostituzione dello Stato politico con lo Stato corporativo integrale. Ancora una volta, si scontrano quindi con i magnati capitalisti, i quali ovviamente si oppongono a tali pretese, non ammettendo che la “fascistizzazione” violi i confini del loro territorio, del loro dominio, desiderando restare padroni nelle loro fabbriche, nelle loro officine, nei loro cartelli e nei loro monopoli. Oppongono perciò il proprio veto a ogni esperienza corporativista, tollerando soltanto una caricatura del tutto inoffensiva dello Stato corporativo, necessaria alla propaganda fascista. Mussolini è costretto a far votare dal Gran consiglio del fascismo, il 15 marzo 1923, un ordine del giorno che condanna espressamente il principio dei sindacati misti, raggruppanti padroni e operai. La Confederazione generale dell’Industria, in una riunione che Mussolini definì storica, dichiarò di voler lavorare con le corporazioni, ma rimanendo indipendente. La legge del 3 aprile 1926 è un compromesso mal riuscito tra queste opposte esigenze: “Le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori possono essere fuse, per mezzo di organi centrali di collegamento, le organizzazioni in tal modo collegate costituiscono una corporazione”. Tuttavia, l’autonomia padronale è garantita, perché lo stesso art. 3 della legge precisa: “…ma lasciando inalterata la rappresentanza distinta dei datori di lavoro e dei lavoratori”. Inoltre lo Stato politico è ben lungi dal “dissolversi” nel modello corporativo integrale che sognavano i fascisti plebei: «La corporazione non ha personalità giuridica, ma costituisce un organo dell’amministrazione dello Stato». I principi immaginari delle corporazioni fasciste sono sempre stati inesistenti perché la “collaborazione” tra datori di lavoro e lavoratori non si è mai attuata e l’operaio non parteciperà mai alla gestione economica di nessun settore del lavoro. La collaborazione esiste solo al vertice delle ventidue corporazioni e si tratta di una collaborazione del tutto particolare: un certo numero di fedeli funzionari della dittatura, sostituiti ai plebei alla testa dei sindacati fascisti, vengono designati quali rappresentanti dei salariati di fronte agli imprenditori e sono “ammessi” semplicemente ad assistere alle deliberazioni padronali. Questo sarebbe lo Stato corporativo fascista.
La lotta al fascismo
La specificità del fascismo italiano e del nazismo tedesco era completamente sfuggita ai partiti comunisti che sottovalutavano il pericolo e assimilavano lo squadrismo fascista alla reazione borghese tout court, teorizzando che esso avrebbe distrutto innanzitutto le illusioni democratiche creando condizioni favorevoli all’offensiva rivoluzionaria. Da ciò l’opposizione alla tattica del fronte unico, in Germania qualche anno dopo, portata avanti dall’Internazionale comunista stalinizzata, che univa al radicalismo verbale il rifiuto di favorire e organizzare una lotta di massa, sfruttando le contraddizioni delle organizzazioni riformiste, minacciate a loro volta dall’offensiva nera. La criminale socialdemocrazia tedesca non si sarebbe certo battuta come un solo corpo contro il nazismo ma avrebbe reagito in ordine sparso se fosse stata trascinata seriamente nella lotta ad esso: “La politica del fronte unico ha lo scopo di separare quelli che vogliono battersi da quelli che non lo vogliono; di spingere avanti coloro che oscillano; infine di compromettere i dirigenti capitolardi agli occhi degli operai e di rafforzare in tal modo la combattività in questi ultimi” (L. Trotsky, La Sola Via).
Nel 1928, invece, il VI Congresso dell’Internazionale Comunista aveva sancito teoria del “socialfascismo” e del “Terzo Periodo”, elaborata da Stalin e Bucharin, secondo cui si sarebbe presto aperta una terza fase del capitalismo nella quale i partiti della sinistra riformista, inclusi i partiti socialisti operai, venivano praticamente assimilati a quelli fascisti (da cui la definizione di “socialfascisti”), in una battaglia unitaria contro i comunisti. Quale debolezza teorica e analitica, come ricorda sempre Trotsky:
“Ammettiamo che la socialdemocrazia, senza preoccuparsi dei suoi operai, voglia mercanteggiare la propria tolleranza nei confronti di Hitler. Ma il fascismo non ha bisogno di una simile merce: non ha bisogno che la socialdemocrazia sia tollerante, ha bisogno di eliminarla. Il governo di Hitler non potrà assolvere alla propria funzione se non dopo aver spezzato la resistenza operaia e battuto tutte le organizzazioni che potrebbero opporre questa resistenza. Questa è la funzione storica del fascismo. Gli staliniani si limitano a una valutazione puramente psicologica, o, più esattamente, morale dei piccolo-borghesi vili e avidi che dirigono la socialdemocrazia. Si può forse supporre che questi traditori patentati rompano con la borghesia e si oppongano ad essa? Un simile impostazione idealistica ha ben poco a che vedere con il marxismo che non parte da quello che gli individui pensano di se stessi e da quello che auspicano, bensì dalle condizione in cui sono posti e dai mutamenti che possono intervenire in queste condizioni. […] Certo, il fascismo non minaccia in nessun modo il regime borghese in difesa del quale opera la socialdemocrazia. Ma il fascismo minaccia la funzione che la socialdemocrazia assolve nel regime borghese e gli utili che ne ricava. Se gli staliniani dimenticano questo aspetto della questione, la socialdemocrazia non perde di vista per un solo istante questo mortale pericolo che la minaccia – minaccia non la borghesia, ma direttamente la socialdemocrazia – in caso di vittoria del fascismo” (ibid.).
Senza vergogna, poi, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, con una giravolta di 180°, divenuta indifendibile la teoria del socialfascismo e del Terzo Periodo, lo stalinismo tira fuori dal cilindro quella altrettanto tragica dei “fronti popolari” (di cui anche Italia sarà vittima alla caduta del regime), con l’unità antifascista non confinata ai partiti operai e piccolo-borghesi progressisti (come nel fronte unico di lotta di Lenin e Trotsky) ma estesa anche ai partiti della grande borghesia liberale, finanche ai monarchici. Inoltre, quella che era un’unità d’azione nel campo della lotta al fascismo diventa il progetto di un blocco politico stabile della classe operaia con la parte della borghesia liberale ritenuta più illuminata (posizione politica vaneggiata ancora oggi dai residui bellici dello stalinismo). I borghesi temono certamente il flagello fascista, ma temono di più il potere operaio. Per conciliare queste due paure, la loro fantasia ha concepito una soluzione: i fronti popolari, che declamano contro il fascismo, ma si guardano bene dal prendere qualsiasi radicale misura atta ad estirparne le radici reali.
Vista da un punto di vista di classe, l’unico che ci può realmente interessare, la lotta contro il fascismo doveva quindi essere in primo luogo la lotta contro il capitalismo, che aveva ora assunto la sua forma più brutale e trasparente. Esemplificando il concetto, doveva essere una lotta per la rivoluzione socialista.
La Resistenza invece virò bruscamente verso l’unità nazionale, per la salvezza della patria, cioè la salvezza della borghesia e del suo potere. Il Partito Comunista d’Italia stalinizzato svolse una parte fondamentale in questo tradimento, i cui strascichi pesano enormemente ancora oggi. La maggioranza dei ricordi celebrativi che se ne fanno, puntano molto su questa narrazione, che al fascismo contrappone democrazia e Costituzione. Lo Stato “democratico” che gli successe fu invece ancora completamente infettato dal morbo fascista, così come lo Stato “democratico” che l’aveva preceduto conteneva già in nuce lo stesso morbo. Gli alti gradi dell’amministrazione, dell’esercito, della polizia, della magistratura, rimasero interamente nelle mani di complici del regime, oltre che nelle mani di quegli stessi che avevano consegnato al fascismo le chiavi del potere. Lo Stato borghese bisognerebbe svuotarlo e spezzarlo, sic et simpliciter.
Decadenza capitalista, regime economico dei monopoli, unità nazionale, impoverimento del ceto medio e impossibilità per i lavoratori di migliorare le proprie condizioni di vita all’interno dell’attuale sistema in crisi, sono concetti che risuonano tutt’oggi nel dibattito politico ed economico, donando a tali discussioni un’attualità che le spinge ben oltre la semplice commemorazione storica.
Il fascismo non può essere efficacemente combattuto e definitivamente sconfitto se non attraverso la rivoluzione proletaria. Qualsiasi “antifascismo” che la rifiuti non è che un vaneggiamento e, cosa ancor più grave, un imbroglio.
Prospettiva Operaia