di GA
Nel corso degli ultimi anni la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan è stata indubbiamente uno dei principali protagonisti della scena politica internazionale in vari contesti di crisi e in vari scenari di guerra. L’impegno politico e militare che ha assunto nei numerosi fronti internazionali (Siria, Libia, Nagorno-Karabakh, Somalia, Cipro, Libano, Grecia) e nazionali (lotta contro i curdi in Turchia e nel Kurdistan siriano, repressione contro le opposizioni democratiche, gestione dei campi profughi nei territori di confine come arma di ricatto verso gli imperialismi europei e terreno di reclutamento di milizie jihadiste) merita un’analisi sullo stato attuale del regime semi-fascista dell’AKP che si stringe attorno al proprio leader, strenuo difensore dei capitalisti turchi. L’imposizione dello stato di emergenza, alla luce del mancato golpe militare al tiranno del 2016, ha permesso negli anni: un’ulteriore liquidazione di numerosi gruppi sociali e politici ostili ad Erdoğan (si contano 80.000 arresti e 160.000 licenziamenti), il rafforzamento dello stato poliziesco con il potenziamento dei “super-prefetti” detentori di grandi poteri di coercizione ed infine l’emanazione di leggi liberticide che hanno portato alla proibizione, fra i tanti divieti, del diritto di manifestare e scioperare contro le politiche del governo. Tuttavia la profonda crisi economica e il cambio della presidenza USA minano fortemente le basi del progetto del sultano che tenta di sviare l’attenzione del profondo deficit statale attraverso la partecipazione a diverse campagne belligeranti, in conflitto anche con gli stessi alleati della NATO, ed accordi con regimi dittatoriali.
Il sogno proibito della Patria Blu e la conquista di nuovi mercati
Il Medioriente costituisce il terreno principale su cui il regime turco intende controllare, piegare e spazzare, definitivamente, la resistenza del popolo curdo. Le cicliche operazioni militari dell’esercito turco al confine con la Siria (Afrin 2018 e Rojava 2019), supportate delle milizie filo-jihadiste dell’Esercito Libero Siriano, testimoniano la volontà di dominare la regione ed inviare un chiaro messaggio alle rivali potenze regionali, quali Assad, Israele, Iran e Russia. L’ultima offensiva, avallata dagli Stati Uniti, ha imposto lo sfollamento di migliaia di rifugiati curdo-siriani verso le regioni meridionali della SDF. Dinanzi alla carneficina delle incursioni turche, i governi europei sono rimasti muti, complici e sodali dinanzi ai crimini di guerra commessi dal proprio alleato NATO, ancor di più intimoriti dalla minaccia di Erdoğan di inondare l’Europa di milioni di migranti in caso di ingerenze.
Oltre ai posizionamenti in Medioriente vi sono altri 3 fronti che sono stati inaugurati dal sultano: 1) le influenze sempre maggiori su Stati africani e petromonarchie, considerati strategici per gli interessi turchi come la Libia, il Sudan, la Somalia, l’Etiopia e il Qatar; 2) la lotta per il controllo di potenziali giacimenti di gas presenti Mediterraneo orientale contro Grecia, Cipro, Egitto e Israele; 3) il ruolo assunto nella guerra del Nagorno-Karabakh a difesa degli interessi azeri nel Caucaso.
Si vada per ordine. L’ingresso della Turchia nella guerra civile in Libia, mediante l’invio di milizie siriane a sostegno del governo della Tripolitania di Fayez al-Sarraj, ha segnato il salto di qualità nello scacchiere libico a discapito degli imperialismi europei (francese ed italiano in primis). Gli accordi di novembre 2019 con Fayez al-Sarraj hanno sancito lo stanziamento di basi militari turche sul suolo libico e la gestione delle acque marittime di confine tramite l’istituzione di una zona economica esclusiva per l’esplorazione e il conseguente sfruttamento di potenziali giacimenti di idrocarburi. Si è trattato di uno schiaffo sonoro lanciato a Francia, Grecia, Cipro, Egitto e Israele. Non a caso lo scorso giugno la nave Çirkin, salpata dalla Turchia per rifornire di armamenti il governo di Tripoli e scortata da navi fregate turche, si è fatta beffa dell’embargo internazionale imposto alla Libia non fermandosi dinanzi alle intimazioni delle autorità greche, italiane e francesi. Mentre nel secondo episodio di novembre, che ha fatto infuriare Erdoğan, è dovuta intervenire la Germania a difesa del blocco internazionale imposto alla Libia, fermando soltanto temporaneamente la rotta del cargo turco Roseline-A diretto a Misurata per rifornire le milizie siriane.
Il recente accordo fra il governo greco della destra di Nuova Democrazia ed il regime militare egiziano del generale al-Sisi per la gestione dei confini marittimi non ha scalfito minimamente l’ambizione della Turchia di Erdoğan nel voler dominare il Mediterraneo orientale. Questo ambizioso piano ha scatenato una crisi internazionale con gli ellenici quando, lo scorso agosto, dinanzi all’isola di Rodi, una nave di perlustrazione energetica turca, Oruc Reis, è stata fatta oggetto di operazioni di disturbo da parte di una fregata greca che, a sua volta, ne è uscita danneggiata da uno scontro con la fregata turca Kemal Reis, arrivata in difesa della Oruc Reis. Le spinte egemoniche turche nel Mediterraneo sono testimoniate anche dalle visite ufficiali di Erdoğan nella zona nord di Cipro, a maggioranza turco-cipriota ed indipendente dalla parte greco-cipriota, volte a rafforzare il sostegno economico nei confronti della propria colonia.
Ultimo in ordine di tempo è il fronte caucasico in Nagorno-Karabakh che ha visto lo smascheramento del sostegno militare fornito da Erdoğan al governo azero contro il nemico armeno mediante l’invio di migliaia di miliziani siriani ed il sostegno dell’aviazione turca che hanno deciso le sorti del conflitto a favore di Baku.
La spada di Damocle della crisi economica sulla testa di Erdoğan
La crisi economica e pandemica a livello globale, la svalutazione della lira con conseguente accrescimento dell’inflazione, il cambio della presidenza alla Casa Bianca con le recenti sanzioni ed il terremoto dell’Egeo (che si somma ai precedenti) sono quattro fattori chiave che stanno incidendo fortemente sulla recessione dell’economia turca. La crisi inevitabilmente sta erodendo la solida alleanza costruita dall’AKP di Erdoğan con i settori della piccola e media borghesia, soprattutto di matrice islamica (commercianti, ristoratori, piccoli imprenditori, ecc.), con i settori della grande borghesia rappresentati da un comitato d’affari corrotto di potenti industriali speculatori in ambito edilizio, energetico, turistico e militare ed infine con l’apertura del mercato turco alle multinazionali straniere che hanno potuto contare su grandi bacini industriali di manodopera a basso prezzo e favori fiscali. Il forte impatto della crisi mondiale sta minando uno dei principali collanti del blocco sociale maggioritario storicamente fedele ad Erdoğan: il ceto medio, impoverito da un’inflazione galoppante ed una caduta del potere d’acquisto dei salari. La svalutazione monetaria della lira turca (circa il 30% nei primi dieci mesi) nei confronti del dollaro e il conseguente aumento obbligato dei tassi d’interesse sull’acquisto di moneta (misure erogate attraverso l’impoverimento delle riserve in valuta estera della Banca Centrale al fine di non far precipitare l’economia nel baratro) sono soltanto la punta dell’iceberg di profondi problemi sociali che interesseranno il governo di Erdoğan. Inoltre le recenti sanzioni economiche americane contro l’acquisto, stipulato nel 2017 dal governo turco con la Russia, del missilistico S-400, produrrebbero una forte contrazione nell’industria militare turca visto che si dovrebbero poi tramutare in un blocco delle esportazioni delle licenze americane per le industrie di difesa turche. Un duro braccio di ferro si profila all’orizzonte con la conseguenza di nuovi posizionamenti geopolitici.
Non saranno certamente i cambi ai vertici, della Banca Centrale del Ministero delle finanze, a invertire la rotta verso il baratro e sicuramente non si potrà eludere all’infinito le responsabilità ed il fallimento delle misure economiche di Erdoğan e del suo blocco sociale di riferimento.
La classe operaia dovrà affrontare nell’immediato l’ondata di licenziamenti senza indennizzi e la restrizione dei diritti sindacali e di sciopero. Gli arresti di centinaia di operai del distretto industriale di Gebze e diretti, in migliaia, verso Ankara sono già all’ordine del giorno. La partita è ancora aperta e le sorti del proletariato turco sono nelle mani dell’intransigente lotta contro il governo di Erdoğan e della costruzione di un governo dei lavoratori che tuteli gli interessi degli sfruttati ed espropri gli sfruttatori.