Il fatto che ad ogni tornata elettorale tutti i partiti cantino vittoria rappresenta soltanto una delle sceneggiate del teatrino della politica borghese. Stavolta però si raggiungono rari picchi di ilarità. Non ci riferiamo banalmente al dato matematico di un pareggio (3 a 3) alle regionali, ma alla condizione di crisi politica che coinvolge tutti i partiti, e quindi l’intero sistema, figlia di una ancora più rampante crisi economica del capitalismo mondiale, che anche questa tornata elettorale non frena, semmai accelera.
La fine dell’illusione populista “a 5 stelle” e la crisi del salvinismo
Le due componenti del famoso esperimento del “governo gialloverde” ne escono con le ossa rotte. Il Movimento 5 Stelle nelle due regioni del sud andate al voto, Puglia e Campania, pur candidando non certo le ultime arrivate ma due personalità storiche del movimento, Laricchia e Ciarrambino, vivacchia attorno alla soglia del 10%, perdendo oltre 100.000 voti per regione (dal 17,2% al 11,1% in Puglia e dal 17% al 9,9% in Campania). Nel nord quasi scompare: in tre regioni che rappresentano più di 10 milioni di cittadini e una buona fetta di PIL italiano, Veneto, Liguria ed Emilia Romagna, la presenza a livello regionale è ormai quasi nulla. In Veneto (3,2%) si è passati da 5 consiglieri eletti nel 2015 a 0, in Liguria (7,8%) da 6 a 2 e 1 in quella Emilia-Romagna dei primi fasti del movimento. Si faccia attenzione al fatto che questi sono i dati relativi alla perdita di voti nelle regionali, perché se il confronto lo si fa con le elezioni politiche del 2018, il verdetto è impietoso: solo due anni fa i grillini raccoglievano praticamente il 50% in Campania, il 45% in Puglia, il 30% in Liguria, il 25% in Emilia Romagna e Veneto. Ma da puro movimento politico interclassista in questi due anni di governo il M5S ha partorito il Reddito di Cittadinanza per i disoccupati e vari tipi di sussidi economici ai padroni (compreso la creazione di un fondo di finanziamento alle piccole e medie imprese con la parte di stipendio restituita dai propri parlamentari), il decreto dignità e i decreti sicurezza, il sì al Recovery Fund e il no (ma solo fino ad oggi) al MES, e con una disinvoltura degna peggiore DC un governo con la Lega e un altro con il PD. Questo partito populista della media e piccola borghesia, la quale è incapace di una politica indipendente, ha dovuto cedere sempre più all’abbraccio del grande capitale, polverizzando l’incredibile consenso costruito attorno a misure di seppur minima assistenza e tutela sociale, che si apprestano ad essere spazzate via dallo stesso governo di cui fanno parte. La guerra fra bande al suo interno è già cominciata e nessun Congresso organizzativo (“Stati Generali” come lo chiamano i grillini) salverà il M5S dal declino a cui è destinato. Il penoso tentativo di festeggiare la vittoria del SI al referendum costituzionale e in centri minori (Pomigliano d’Arco e Matera) da parte dell’ala del gruppo dirigente maggiormente governista (capeggiata dal sempre-ministro Di Maio) è veramente patetico e un chiaro segno di disperazione politica.
Non va meglio alla Lega di Salvini, colui che appena un anno fa chiedeva “pieni poteri”. Chi, a sinistra, aveva previsto l’ascesa continua di un salvinismo imperante e di lungo periodo, dovrebbe confrontare quel momento con la situazione attuale. Partiamo dai numeri. Questi ultimi dimostrano innanzitutto come ancora una volta la Lega non sfonda affatto nel Meridione, con buona pace del “progetto nazionale”. In Campania, dove il leader leghista si è ripetutamente recato nelle ultime settimane e mesi (fra l’altro fortemente contestato!), il suo partito si ferma al 5%, come si ferma al 9% in Puglia. Salvini aveva inoltre puntato tutto sulla vittoria della sua candidata Ceccardi in Toscana, con la Lega che sarebbe dovuta diventare secondo i suoi desiderata il primo partito della regione. Ebbene, non solo la presidenza della regione non è arrivata ma la Lega si è fermata poco sopra il 20%, cioè 15 punti percentuali sotto il PD. Poco più del 20% anche nelle Marche, salutato come un successo, evidentemente fingendo di non ricordare che l’anno scorso alle elezioni europee (dopo le quali ha iniziato con la storia dei “pieni poteri”) la Lega si attestava al 38%. Ma veniamo a quella che sembra l’unica vittoria leghista e invece rappresenta un suo fattore di crisi nonché la più grande sconfitta di Salvini e del suo progetto lepenista nazionale: la vittoria di Zaia in Veneto. La lista del governatore del Veneto triplica i voti di quella ufficiale che porta nel simbolo il nome del segretario, lista Zaia presidente al 45%, la Lega ufficiale poco sopra il 15%. Ovviamente Salvini ha provato ad esultare per “una vittoria della Lega” ma nessuno lo ha creduto, nemmeno la stampa borghese. Questo perché si tratta della Lega di Zaia, regionalista, autonomista, erede elettorale della DC e punto di riferimento per la media borghesia veneta, portavoce degli interessi delle imprese di quel famoso modello nord-est che vive di esportazioni, in particolar modo nei mercati dell’Unione Europea bistrattata dal capo leghista. Il successo di Zaia mette in crisi la propaganda nazionale e nazionalista, antieuropea e dialogante con il ciarpame neofascista di Salvini, spezzando le gambe al suo progetto su modello lepenista. Perfino il numero due della Lega, Giorgetti, ha chiesto a Salvini di piantarla con questa propaganda al fine di “costruire un solido sistema di relazioni con le maggiori cancellerie internazionali e un rapporto più stretto e non conflittuale con l’establishment europeo”, https://www.corriere.it/politica/20_settembre_23/lega-giorgetti-avverte-mai-piu-errori-come-nostro-voto-lukashenko-82f24a3c-fddd-11ea-a13a-1a7326323030.shtml. I tanti compagni che avevano teorizzato il successo nel prossimo futuro di tale progetto, non riuscendo ad analizzare il suo coacervo di contraddizioni che ora sono esplose dopo le regionali venete, potrebbero rileggere quanto scrivevamo dopo ogni recente elezione che salutava l’ascesa salviniana (https://prospettivaoperaia.org/2020/01/31/la-lega-non-sfondail-m5s-crollail-governo-traballa-le-fibrillazioni-del-sistema-politico-allindomani-delle-elezioni-regionali/ , https://prospettivaoperaia.org/2019/06/23/elezioni-europee-il-blocco-sovranista-europeo-che-non-ce-la-crisi-del-populismo-italiano-a-5-stelle-e-linutilita-della-sinistra-riformista-nellattuale-fase-storica/.
Il Partito Democratico e il premier Conte hanno poco da festeggiare
Il PD esulta per i propri risultati. Anche in tal caso si tratta della recitazione di una propria parte all’interno di questa commedia. Oltre alla perdita della presidenza della regione Marche, alla batosta in Veneto (dove non arriva al 12%) e alla netta sconfitta della “coalizione di governo” in Liguria (unica regione infatti in cui PD e M5S hanno provato a presentarsi insieme), le vittorie di De Luca in Campania e di Emiliano in Puglia sono tutt’altro che vittorie del Partito Democratico, trattasi anzi di vittorie che remano contro il Partito Democratico. De Luca ed Emiliano sono esattamente i due governatori PD più amati dalla base sociale di destra. Il primo, appena eletto, si è subito smarcato dal suo partito affermando che si tratta di una vittoria che va oltre la destra e la sinistra: è una vittoria semplicemente dei cittadini campani. Difatti il caudillo di Salerno sostiene il vero in quanto i voti al PD, col suo 17%, sono solo una parte di una coalizione molto larga (cha infatti va oltre il 60%), con liste che, oltre al sostegno dei notabili trasformisti per eccellenza della DC campana (De Mita e Mastella) brulicano di candidati provenienti dal centrodestra ai tempi del berlusconismo imperante (compresi illustri “cosentiniani”). Si calcola che appena 1/5 dell’elettorato di De Luca aveva votato PD alle Europee dello scorso anno (https://www.huffingtonpost.it/entry/il-federalismo-virale_it_5f6b715ac5b629afbe99920e?utm_hp_ref=it-politica). Il secondo porta in consiglio regionale un bel po’di nomenclatura del centrodestra e per festeggiare il proprio successo non trova di meglio che ringraziare ad ogni intervista i leghisti che hanno votato per lui; una prassi che non stupisce più di tanto visto che si tratta dello stesso Emiliano amico e sostenitore (sostegno elettorale anche in questa occasione ricambiato) del sindaco di estrema destra di Nardò, Pippi Mellone. Alla vittoria dei menzionati governatori si aggiunga il fatto che sul referendum costituzionale il PD si è mosso in ordine sparso e quasi in cerca di assoluzione per lo stato confusionario. Si comprende come tale mossa sia unicamente il collante del potere fra l’essere il punto di riferimento politico del grande capitale in Italia e allo stesso tempo mantenere unito il partito. Un collante che si sgretolerà sotto i colpi delle masse rabbiose di fronte alla crisi economica del capitale a livello mondiale.
Infine, colui che parrebbe essere il vero vincitore di queste elezioni, il capo del governo PD-M5S-IV-LEU, Giuseppe Conte, non può che avere in realtà diversi motivi di preoccupazione, al netto della sua spavalderia. Innanzitutto avrà sempre più a che fare con le fibrillazioni del M5S e di conseguenza sarà pressato da un PD che paradossalmente non desidera altro che scalzare l’alleato di governo per assumere esso il ruolo primario dell’attuale governo. In pratica, la sua principale caratteristica, quella di smussare, limare, buttar fumo negli occhi, rimandare le questioni fino alla soluzione a lui attribuita, non gli servirà più, e dovrà decidere chi accontentare e chi scontentare, a partire dall’accettazione e dalla gestione dei finanziamenti europei, Recovery Fund e soprattutto MES.
Il governo prepara il massacro sociale, urge la ferma risposta dei lavoratori e delle lavoratrici
Il governo non è quindi affatto più forte ma ancora più debole. L’immissione di liquidità ad opera dell’UE per evitare l’immediato tracollo, tramite i meccanismi del Recovery Fund e del MES, non farà altro che rimandare la palla in avanti dinanzi a crisi dei debiti ancora più spaventose.
Nel frattempo, l’Unione Europea pretende di dettare l’agenda al governo; un’agenda fatta di sacrifici per i lavoratori, un’agenda di massacro sociale. Le pur pietose minime misure di tutela ed assistenza sociale come “Quota 100” e “Reddito di Cittadinanza” sono già state picconate dal premier con il mancato rinnovo della prima (che, come avevamo scritto, era appunto una misura non strutturale ma relativa ad appena un triennio, un mero atto di propaganda elettorale di Salvini, https://prospettivaoperaia.org/2019/05/05/quota-100-lennesima-truffa-ai-danni-della-classe-operaia/) e la imminente annunciata ristrutturazione del secondo.
E sarà solo l’inizio. La terrificante crisi economica, amplificata da quella pandemica, non lascia dubbi. Si vedano le arroganti continue dichiarazioni del neopresidente di Confindustria Bonomi sullo smantellamento di ciò che resta dello stato sociale, a partire dai CCNL.
In conclusione, come ad ogni tornata elettorale degli ultimi anni, quello che è venuto fuori è l’impossibilità di esistere di una forza che possa consolidarsi al potere dettata dall’inesistenza di una risposta della borghesia di uscire dalla crisi. La difesa della proprietà privata e dell’attuale sistema economico si scontra e si scontrerà sempre di più con la povertà crescente delle masse e con l’inevitabile aumento del malcontento che non può più essere rappresentato da nessuna forza che non si basi sulla totale indipendenza politica delle classi lavoratrici. L’unica alternativa per uscire da questa barbarie è un’alternativa operaia e socialista. L’unico spazio reale d’iniziativa per uscire dall’impasse appartiene alla sinistra rivoluzionaria e ai lavoratori.