La pigrizia e la celebrazione dell’umano

Il dogma del lavoro, responsabile dell’abbrutimento del proletariato come scriveva Lafargue nel 1880 nel pamphlet “Il diritto alla pigrizia”, è al centro della cultura della società capitalistica. In Italia è presente già nel primo articolo della costituzione sottoforma di “diritto”. In questi tempi di crisi viene propagandato da politici e padroni quando parlano di necessità del sacrificio e si mostra sempre più spesso nella maggioranza della popolazione che subisce questo dogma, nel frequente utilizzo di epiteti come “fannullone”, ad esempio nei luoghi comuni sui dipendenti pubblici. È necessario estirpare questo dogma dalle nostre vite. Al lavoro salariato va contrapposta la pigrizia, non come inattività, ma come lavoro liberato dal carattere mercantile e capitalista, dal rapporto schiavo/padrone – proletario/capitalista.
Proponiamo a tal proposito un articolo di Pablo Rieznik, dirigente storico del Partido Obrero argentino scomparso nel 2015.

La pigrizia e la celebrazione dell’umano

di Pablo Rieznik [1]

(1949-2015)

L’ozio divertito

Fin qui l’elogio dell’ozio di Lafargue si presenta conseguentemente come una sorta di tensione con la tradizione che, dalla fine del Medioevo, pone il lavoro come la fonte stessa di ciò che è dell’uomo e ciò che è dell’umanità. È il lavoro della società borghese che dà all’uomo la possibilità di superare la dipendenza primitiva dalla natura e lo dota di un’universalità propria ed essenziale. L’allargamento del suo mondo, cioè di quello che è la sua stessa costruzione, raggiunge la dimensione di un gigantesco insieme di relazioni sociali che prendono la forma di una totalità concreta, l’insieme di un sistema planetario, la realtà di un mercato mondiale e di una interconnessione materiale tra gli uomini che non cessa di abbagliare nella sua inesauribile vastità. Qual è il posto, in questo mondo, della pigrizia, della pretesa di un ozio incompatibile con il “dogma del lavoro”?

Per rispondere a questa domanda è necessario specificare: non si tratta del lavoro in generale, ma del lavoro nella sua espressione concreta e contraddittoria nella società capitalista. Lafargue non si riferisce al lavoro come generica potenza sociale, ma alla sua opposizione/contraddizione con il lavoro impotente dello stesso lavoratore, del lavoro sfruttato, del lavoro che si presenta come merce, del lavoro la cui sostanza viene espropriata dal produttore direttamente per passare al controllo dei suoi possessori, del capitalista, del proprietario dei mezzi di produzione. È, quindi, il lavoro privo delle condizioni del lavoro stesso, poiché la classe operaia moderna lo è dalla sua separazione dai mezzi di produzione e dalla sua appropriazione da parte di chi non lavora: il capitale è un rapporto sociale che si instaura, appunto, in questo antagonismo fondante tra possessori e diseredati.

Proprio questo è stato il punto di partenza dell’elaborazione critica di Marx, mirabilmente esposta nei suoi famosi Manoscritti economico-filosofici, che abbiamo analizzato in un testo recente, riferendoci al 150° anniversario del Manifesto comunista [2] Il lavoro, di conseguenza, è lavoro alienato.

Attraverso il lavoro alienato, il lavoro si disumanizza, diventa semplice attività meccanica e pura animalità, forza e spreco; l’operaio diventa una “pura appendice della macchina” priva di tutto ciò che non è routine, ripetizione, ingranaggio, senza anima né vita. È il moderno lavoro degli schiavi. All’inizio del capitolo della sua opera -De l’alienation…, riguardante il problema dell’ozio e del piacere Naville cita Simone Weil [3]: “Nessuno accetterebbe di essere schiavo per due ore; la schiavitù, per essere accettata, deve durare abbastanza a lungo, ogni giorno, per rompere qualcosa di elementare nell’uomo”. Il lavoro come compito compulsivo, costretto dall’obbligo del proletario di vendere la sua forza lavoro per sopravvivere, deve essere prolungato quotidianamente per tutto il tempo necessario per essere confuso con l’esistenza stessa della schiavitù salariale, senza il tempo di considerare altre alternative.

Troppo tempo libero, al di fuori del lavoro, è incompatibile con la sua qualità di lavoro alienato e sfruttato. Da questo punto di vista, l’antitesi del lavoro non è il lavoro migliorato, valorizzato, “umanizzato”; è il non-lavoro, l’orbita delle attività libere. Quantità e qualità: il tempo “libero” tra lunghe giornate di lavoro, così come un riposo essenziale per il mantenimento della forza lavoro, è la continuità della schiavitù. La forma sociale del lavoro e del non-lavoro formano una sorta di coppia univoca. Ecco perché c’è l’ozio alienato, il consumo compulsivo, lo sfruttamento del “tempo libero”. La vera conquista dell’ozio e del piacere è incompatibile con il lavoro alienato. Il superamento di tale alienazione ha solo in parte a che fare con un cambiamento delle condizioni “latu sensu” del lavoro stesso, nel senso di trasformarlo in un’attività più piacevole e compatibile con una minore usura fisica, cioè con la conservazione del lavoratore stesso. Questo è solo un mezzo, una risorsa del movimento dei lavoratori contro lo sfruttamento, per un limite al loro esaurimento fisico e morale.

Il superamento del lavoro alienato, del lavoro che “usa” il lavoratore per valorizzare il capitale, è un nuovo ordine della società. Un ordine in cui, da un lato, il lavoratore collettivo si appropria del carattere sociale del proprio lavoro e lo sviluppa in modo consapevole, quindi, come individuo sociale. D’altra parte, è la possibilità che il lavoro e il non lavoro formino un insieme armonioso, oltre i limiti del puro bisogno di riproduzione vitale, dell’esigenza materiale del compito penoso e compulsivo che è proprio della lotta per la vita, della ristrettezza delle risorse, della miseria dello sviluppo delle forze produttive dell’umanità.

La critica del lavoro

In generale, però, il punto di vista marxista trascende la visione di tutto il socialismo e delle utopie che lo precedono. Quest’ultimo considerava il lavoro come la misura stessa dell’uomo, in contrapposizione all’oziosità caratteristica dell’ordine precapitalista. Per Marx, invece, l'”emancipazione dei lavoratori”, è il punto di partenza dell'”emancipazione dell’uomo proprio dal lavoro”, come trascendenza della sua portata di vita, oltre la restrizione della necessità. In questo caso, Marx ha sostituito il desiderio e la volontà astrattamente concepita, sia con un lavoro piacevole, sia con un ozio creativo, con l’analisi concreta del capitale, del potere materiale che questo ha creato come requisito imprescindibile per la conquista della “libertà”. La conquista di un mondo umano da parte dell’uomo si presenta, quindi, come conseguenza della metamorfosi del lavoro (e del non-lavoro sociale), derivante dal superamento dei rapporti di sfruttamento propri del capitalismo.

La pigrizia esaltata da Lafargue non ha nulla a che fare, di conseguenza con la non-attività, intesa come sinonimo di non-lavoro. La pura inattività è l’opposto dell’esistenza vitale. L’organismo vivente, al contrario, si identifica con gli scambi attivi e costanti con l’ambiente di cui fa parte. Il non-lavoro non è inattività, ma piuttosto un’attività inestimabile; è, in questo senso, “jouissance”, il godimento della vita, il piacere. L’eliminazione del carattere mercantile, dell’acquisto e della vendita del lavoro e, pertanto, la trasformazione del lavoro stesso in un’attività “libera”, non determinata esternamente dal mercato, cambia totalmente il significato del lavoro stesso.

Il punto di partenza di Marx non è stata la generica rivalutazione del lavoro come artefice della costruzione di una società in cui la produzione prende il volo dal suo costruttore e dal mondo come forma di lavoro umano sociale e collettivo, inimmaginabile in qualsiasi epoca del passato. Questa è l’eredità dei migliori pensatori che lo hanno preceduto e la cui “critica”, cioè la cui assimilazione e superamento, è il principio dell’attività teorico-pratica nel marxismo. Il lavoro per me e non per nessun altro, tale è la condizione della ricostruzione di un mondo umano capovolto. Nella misura in cui scompare il rapporto di padrone e schiavo, quel lavoro per me è lavoro sociale, non per un altro ma con gli altri, come parte di altri, nell’armonia di ciò che è mio e di ciò che è dell’altro; nella stessa misura l’antagonismo tra lavoro e lavoratore, tra lavoro privato e lavoro per la società, tra il tempo libero (fuori del lavoro) in cui vivo e il lavoro in cui non vivo; insomma, l’antagonismo proprio dell’alienazione tende a scomparire. Lavoro sociale non alienato che, allora sì, è l’espressione vitale non negata dell’uomo stesso, da un lato, e l’estensione del tempo libero come risultato della straordinaria produttività del lavoro impiegato nella produzione immediata, dall’altro. Questi sono i due poli dell'”emancipazione del lavoro”.

Il merito del Diritto alla pigrizia è di averlo espresso sotto forma di un autentico manifesto: “In nessun luogo migliore che nel testo di Lafargue sono esposte le articolazioni dell’analisi marxista”. [4] Anticipando la nota opera di Veblen,[5] Lafargue trasforma la critica del tempo libero, dei pensatori della società borghese in ascesa, in un attacco al tempo libero, alla improduttività e allo spreco caratteristici di uno stadio superiore di accumulazione nella stessa società capitalista: “Per poter svolgere la sua doppia funzione sociale di non produttore e super consumatore, il borghese non solo doveva violare i suoi modesti gusti, perdere le sue laboriose abitudini di due secoli fa e abbandonarsi al lusso sfrenato, all’indigestione angusta e sifilitica, ma anche sottrarre al lavoro produttivo un’enorme massa di uomini, per ottenere un aiuto…”. Le furiose diatribe di Lafargue “contro il lavoro” non sono la pura rivendicazione del non-lavoro contro il suo opposto; entrambe sono categorie storiche, incomprensibili fuori dallo spazio e dal tempo.

In realtà, il genero di Marx, quando attacca il “lavoro”, si interroga su ciò che esso contiene di “non lavoro”; critica la negazione del lavoro da parte del capitale e critica il “non lavoro”, sia per il suo carattere intimamente legato alle catene del lavoro stesso, sia per il suo contenuto specifico nel caso del tempo libero capitalista. In primo luogo, perché il “lavoro” in sé, sotto il dominio del capitale, è lo sfruttamento vitale del lavoratore e, quindi, il “non lavoro”, la negazione del lavoro come autentica attività dell’uomo che si svolge nel suo lavoro, come espressione di sé stesso. In secondo luogo perché il “non lavoro”, nella misura in cui è funzionale al “lavoro” retribuito, è condizione e continuazione dello sfruttamento stesso del lavoro e viene negato come sfera propria della libertà. In terzo luogo, perché il “non lavoro” dei proprietari dei mezzi di produzione, come attributo derivato dallo sviluppo stesso del capitale, manifesta la sua esistenza nel consumo e nella vita improduttiva dei borghesi sovra produttori e spreconi.

La pigrizia, il “non lavoro”, nella sua connotazione più sostanziale, è dunque la prospettiva di una nuova storia dell’uomo in cui, parafrasando il Manifesto comunista, “lo sviluppo di ogni uomo è la condizione per lo sviluppo dell’intera umanità”. In altre parole, è la prospettiva di un’umanità sociale in cui la personalità umana, l’individuo e la società si strutturano come un’unità priva dello sfruttamento secolare dell’uomo da parte dell’uomo stesso.

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[1] Frammento dell’articolo pubblicato in Sartelli, Eduardo (comp): Contra la cultura del trabajo, Ediciones ryr, Bs.As., 2007

[2] Rieznik, Pablo: “La dictadura del proletariado como un acto de sanura (y una referencia al amor)” in En defensa del marxismo, nº 24, aprile 1998.

[3] Naville, Pierre: De l’alienation a la jouissance, Edit. Librairie Marcel Riviere, Parigi, 1957.

[4] Lanfant, Marie Françoise: Sociología del ocio, Ediciones Peninsula, Barcelona, 1978.

[5] Veblen, Th.: Teoría de la clase ociosa, FCE, Messico, 1966.

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