di Rivoluzionaria
Su Telegram, celebre e diffusa applicazione di messaggistica istantanea, esistono più di 20 gruppi (per ora questa è la cifra di quelli scovati) in cui più di 40.000 membri condividono i files più disparati tra materiale pedopornografico, video di atti sessuali girati o pubblicati senza il consenso della vittima, numeri di telefono o dati sensibili di donne e ragazze, fotomontaggi pubblicati sui social network modificati in modo tale che le vittime appaiano nude. Migliaia di utenti, per mesi, hanno diffuso foto e video di inconsapevoli ex fidanzate, amiche, sorelle e figlie (nell’ultimo caso anche minorenni!), gettando queste vittime in pasto a orde di individui che, nei loro messaggi, inneggiano alla violenza, alle molestie, alla pedofilia, allo stupro.
L’inchiesta di Simone Fontana di Wired e le denunce social di alcune delle vittime di questa fogna e gogna mediatica, hanno riportato alla luce un fenomeno del quale, purtroppo, si era già a conoscenza.
Chi pensa che la violenza e lo stupro si possano perpetrare solo fisicamente si sbaglia di grosso. Centinaia di bambine, ragazze, donne sono state violentate per in diversi modi. La sub-cultura dello stupro, che è ancora ben vigente, continua a mietere vittime intensificando costantemente le proprie modalità di azione.
Ancora una volta assistiamo ad un’assoluta e squallida reificazione delle donne che sfugge da ogni controllo sociale, virtuale e giuridico: sociale, perché in quei gruppi privati, gli utenti si spalleggiano e condividono lo stesso mortificante giudizio nei confronti delle donne; virtuale, perché i membri utilizzano account falsi, per celare la loro vera identità, dietro i quali – potenzialmente – si può nascondere un nostro conoscente, amico o parente. Infine, gli utenti di questi gruppi eludono qualsiasi controllo giuridico, in quanto le cosiddette leggi ad hoc, come ad esempio la legge n.69 dell’agosto 2019, denominata “Codice Rosso”, sono completamente insufficienti. Non si può continuare a relegare la tematica della condizione della donna ad una situazione emergenziale, ricorrendo ad azioni-tampone nate dall’incapacità di scavare a fondo per ricercare le vere cause della situazione oppressiva che miliardi di donne continuano a vivere.
È assurdo ritenere che il problema della violenza di genere vada risolto ricorrendo prioritariamente agli strumenti dell’educazione. È bene ribadirlo: non è una questione che ha origine nella sfera della cultura. Il problema è –soprattutto – un problema di sistema, strutturale. Finché il ruolo della donna nella società è predeterminato – moglie, madre, svago sessuale – e quindi oppressivo, non c’è spazio per la sua tutela. La subordinazione della donna è, nel sistema economico attuale, quello capitalistico, necessaria perché va a colmare un vuoto che la società lascia volutamente tale: il “lavoro di cura”, dei bambini, degli anziani e anche semplicemente degli uomini, vale a dire della forza lavoro futura, passata e presente. La subordinazione della donna è funzionale al fatto che molti uomini che non possono pagare qualcun altro per occuparsi della casa, dei loro figli e dei genitori anziani. La subordinazione, loro, la conoscono bene perché la vivono tutti i giorni sui posti di lavoro. La subiscono ogni volta che dall’alto gli viene detto “i soldi ce li ho io, tu fai come ti dico io o ti licenzio e muori di fame”. E questa dinamica oppressiva la riproducono a casa o con le donne che frequentano. È una dinamica che quando assume le sue forme più feroci è fatta di soprusi fisici e psicologici, in cui la vendetta è uno sfogo quando la situazione è sfuggita al loro controllo, alla loro oppressione diretta. È una dinamica violenta che è strutturale del capitalismo.
La subordinazione delle donne è sicuramente un retaggio storico, ereditato da tempi e modi di produzione più lontani, ma anche oggi è un anello importante della catena. Questo è il motivo per cui molte donne non lavorano, lavorano part-time e nel settore dei servizi (educazione, pulizie, ristorazione e altro…), diventano schiave del sesso. E raggiungere posizioni lavorative ben retribuite, vincere il soffitto di cristallo, non risolve le cose: per ogni donna che non ha il tempo di occuparsi dei figli, c’è ne sarà un’altra che sarà (mal)pagata per farlo e che al contempo dovrà occuparsi anche dei suoi di figli probabilmente. La verità è che nessuno dovrebbe dipendere dalle finanze di nessuno per porre fine alla propria oppressione. Una baby-sitter, una badante, una infermiera non dovrebbe dipendere dalle finanze di una ricca donna in carriera per il proprio sostentamento economico. Una donna disoccupata o lavoratrice part-time non dovrebbe dipendere dal marito per il proprio sostentamento economico. Una prostituta non dovrebbe dipendere da un uomo che ha due spiccioli da spendere per usarla a proprio piacimento. Un uomo non dovrebbe dipendere da un datore di lavoro, alias il proprietario dei mezzi di produzione, per il proprio sostentamento. Nessuno dovrebbe dipendere da nessuno, perché la dipendenza è una dinamica oppressiva che è fatta di soprusi e si mantiene in piedi con l’uso della violenza. Ed è una dinamica che si ripete su chiunque sia implicato in un rapporto di subordinazione.
Dobbiamo cancellare la subordinazione dalla faccia della Terra. Dobbiamo cambiare il sistema economico sul quale la nostra società è organizzata e passare ad una economia pianificata in cui non vi è subordinazione tra datore di lavoro e lavoratore, in cui non vi è lo stipendio, ma il diritto alla casa, al cibo, al tempo libero. Una società in cui la cura dei figli, degli uomini, delle donne, degli anziani è socializzata e avviene fuori le mura domestica, senza distinzioni di genere. Una società dove la struttura è libera da oppressioni.