di NI
Senza troppe sorprese, da giovedì 16 Aprile il nuovo presidente di Confindustria è Marco Bonomi, già presidente di Assolombardia. Subentra al suo predecessore Boccia nella fase più delicata mai vissuta dalla storia del capitalismo. In particolare l’Italia si troverà quest’anno ad affrontare un calo del PIL attualmente stimato al 9%. È, inoltre, sotto gli occhi di tutti il ruolo centrale di Confindustria nella correlazione tra il numero considerevole di morti e contagiati dal Corona virus in Lombardia e la scelta scellerata di continuare a tenere attiva la produzione in quella regione, nonostante il numero dei contagi e dei morti cresceva esponenzialmente di giorno in giorno. Non sono pochi gli scienziati che hanno sostenuto e divulgato questa tesi. Tra quelli che non si sono esposti, invece, non c’è nessuno che si è sentito di negarla ufficialmente.
Ed è in questo clima che vanno contestualizzate le prime parole di Bonomi da presidente:
«Dobbiamo metterci immediatamente in condizioni operative tali per affrontare con massima chiarezza ed energia la sfida tremenda che è davanti a noi: continuare a portare la posizione di Confindustria su tutti i tavolo necessari rispetto ad una classe politica che mi sembra molto smarrita in questo momento, che non ha idea della strada che deve percorrere il nostro Paese. Occorre far riaprire le produzioni ma evitare seconda ondata contagio. Il tempo è il nostro nemico. La voragine del Pil è tremenda, è una grande occasione per cambiare Italia. Far indebitare imprese non è la strada giusta, l’accesso alla liquidità non è immediato».
Prosegue poi con un attacco a governo e sindacati, nonostante questi nel mese di marzo hanno placato la rabbia di migliaia di lavoratori che scioperavano spontaneamente, dirottandola nei tavoli di trattativa da cui sono nati dei decreti farsa, e nonostante le dichiarazioni di Landini, favorevole a garantire le liquidità alle imprese (Corriere della Sera – 12 Aprile), che lo portano di fatto a lottare in una battaglia fianco a fianco con Confindustia. Governo e sindacati sono ritenuti da Bonomi entrambi colpevoli di aver alimentato un forte sentimento anti-industriale: «Non pensavo di sentire più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Sentire certe affermazioni da parte del sindacato mi ha colpito profondamente. Credo che dobbiamo rispondere con assoluta fermezza».
Ci troviamo davanti a un discorso che difende con le unghie la posizione di egemonia della borghesia nella centralità della vita del paese. Nelle sue parole possiamo leggere la crisi di dominio politico generata da questa emergenza. Infatti, viene preso di mira l’attuale governo «che non ha idea della strada che deve percorrere». Questa critica non può che riferirsi alla mancata approvazione del MES, respinta al momento dalla componente piccolo borghese dei 5 Stelle presente nel governo e accolta invece dal PD. Al contrario, Bonomi si era già espresso favorevolmente per l’utilizzo del MES (Intervista a La Repubblica – 22 Marzo), che garantirebbe in tempi brevi le liquidità alle imprese per restare a galla e poi ripartire. D’altra parte, l’austerità con cui si dovrà ripagare quella manovra non interesserà le imprese e ricadrà completamente sui lavoratori.
Il governo si trova in una fase di crisi dettata oltre che dalla posizione sul MES, anche dalle necessità contrapposte di garantire la salute alla popolazione e il profitto alla borghesia, che spinge ciecamente per una riapertura totale di fabbriche e imprese. Gli ultimi decreti emanati sono il frutto di questa mediazione e, nonostante si prefiggessero lo scopo di chiudere la produzione non essenziale, hanno permesso comunque il proseguimento dei 2/3 della produzione. Alle aziende che non rientrano nei codici Ateco, infatti, basta presentare un ricorso per continuare a lavorare senza la necessità di ricevere prima una risposta. Secondo le stime di UIL e CGIL, a inizio Aprile sono state presentate tra le 75 mila e le 65 mila richieste di tenere aperta la produzione, un numero troppo elevato per permettere alle prefetture di valutare ogni singolo caso. Di conseguenza la maggior parte di quelle imprese è tuttora attiva. A Brescia, una delle zone più contagiate dove circa il 70 per cento delle aziende non risponde ai criteri di essenzialità, nella prima settimana di Aprile erano arrivate più di 4.800 richieste di deroga.
In queste contraddizioni si rispecchia la situazione attuale dell’epidemia in Italia. Il numero dei contagi sta scendendo, ma molto lentamente. Dopo quasi due mesi abbiamo ancora una media di 3000 nuovi contagiati e 500 morti al giorno. La positività dei dati trasmessi dalla protezione civile è edulcorata dall’ovvio numero crescente dei guariti, che probabilmente nei prossimi giorni sommati a quello dei morti supereranno i contagi quotidiani, portandoci così al tanto atteso picco. Quindi siamo di fronte a numeri tutt’altro che rassicuranti e ogni idea di riapertura delle attività in queste condizioni lascia presagire nuove stragi. In questa fase una frase come «Occorre far riaprire le produzioni ma evitare seconda ondata contagio» si macchia di un’ipocrisia cinica e criminale che non può trovare un riscontro oggettivo nella realtà.