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La compressione della spesa sociale e lo smantellamento del welfare determinano sempre di più un peggioramento delle condizioni di vita delle donne, impegnate non solo nelle attività produttive, ma anche in quelle riproduttive, occupandosi della nascita, della crescita, della sopravvivenza e dell’invecchiamento della classe lavoratrice (il cosiddetto “lavoro di cura”). I tagli alla spesa pubblica, vergognosamente spacciati come “sprechi”, hanno raggiunto il loro massimo negli anni posteriori alla crisi economica del 2008. Una crisi che attanaglia il mondo da oltre un decennio e che è la più grande crisi capitalista della storia, superiore a quella del ‘29 perché tocca l’intera economia mondiale. Una crisi di cui non si intravede alcuna fine. Questi tagli hanno permesso di racimolare risorse per pagare gli interessi sul debito pubblico italiano, per salvare le banche e le imprese dalla propria bancarotta. Ogni anno a novembre, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, assistiamo alla solita passerella politica e alle dichiarazioni di rito contro i femminicidi. E intanto i centri anti-violenza attivi si contano sulle dita di una mano, non hanno mezzi e chiudono! Gli vengono tagliati i fondi e vengono minacciati di sfratto o di sgombero nel quadro di una generale “necessità” di tenere sotto controllo il rapporto deficit/PIL. È il caso ad esempio della Casa Internazionale delle Donne di Roma a cui il Comune chiede un arretrato di oltre 800.000 euro sul canone di locazione. È il caso della Casa delle donne “Lucha y Siesta”, sempre a Roma, che rischia la chiusura a causa del piano di rientro finanziario che coinvolge gli immobili Atac. È il caso di tre centri anti-violenza di Napoli, che la giunta De Magistris ha chiuso nel novembre 2018 per “mancanza di fondi”, mentre nel 2017 ha rinunciato ad un canone di fitto di quasi mezzo milione di euro per lo storico edificio che ospita la Caserma “Nino Bixio”, nel quadro di un progetto che permette l’apertura di una scuola di guerra europea per la formazione degli ufficiali. È il caso del centro anti-violenza “Il Volo delle Farfalle”, a Vallo della Lucania, chiuso dalla Regione Campania proprio ad inizio di questo anno. Sarà il caso di numerosi altri centri che subiranno le conseguenze dell’annunciato pacchetto di privatizzazioni e dismissioni del patrimonio immobiliare per 18 miliardi di euro.
Dobbiamo difendere i diritti conquistati e lottare per ottenere tutti quelli che non abbiamo ancora ottenuto. Dobbiamo rivendicare misure di difesa della donna da parte dello Stato, con il controllo però delle stesse donne sulla loro esecuzione e sulla loro efficacia, tramite lo strumento di un’organizzazione indipendente delle donne. Rivendichiamo la lotta, teorica e pratica, contro la violenza sulle donne. È necessario un programma politico capace di denunciare chiaramente i meccanismi strutturali e sovrastrutturali che sottendono agli attacchi che riceviamo ogni giorno. Contro la centralità delle banche e del capitale privato, abbiamo la necessità di rivendicare la centralità del mondo del lavoro, della pianificazione economica e dell’interesse pubblico e abbiamo la necessità come donne di organizzarci, di promuovere l’azione diretta e gli scioperi, non solo l’8 marzo. Per una lotta radicale in difesa dei diritti e degli interessi del 99% della popolazione mondiale, a partire dal coraggioso esempio della grande mobilitazione che vede da anni protagoniste noi donne e in particolar modo le lavoratrici in tutto il mondo!
Il lavoro
La prima condizione per una reale emancipazione delle donne è renderle economicamente indipendenti. Senza mezzi di sostentamento autonomi le donne non possono, infatti, sottrarsi da situazioni di violenza, soprattutto domestica. Oggi le donne che lavorano fuori casa hanno raggiunto un numero senza precedenti a tal punto che si parla di “femminilizzazione” del mercato del lavoro. Ma non è abbastanza. In Italia, ancora oggi, il 49,9% delle donne non lavora e non ha, dunque, un’entrata economica indipendente. Quando lavorano lo fanno perlopiù nel settore dei servizi, in modalità part-time e, sempre più spesso, con contratti a tempo determinato e a progetto. Questo fa sì che gli stipendi delle donne siano ancora nel 2020 mediamente molto più bassi di quelli degli uomini (il cosiddetto fenomeno del gender pay gap). Senza contare il fatto che le donne vengono assunte con maggiore reticenza degli uomini a causa degli oneri (che in realtà altro non sono che “diritti”) che le aziende devono sopportare rispetto al loro poter diventare madri (maternità, allattamento) o al loro svolgere delle forme di lavoro di cura (permessi per la cura di anziani, bambini).
Ad ogni modo, il lavoro fuori casa, in sé e di per sé, non costituisce in alcun modo una forma di vera e propria liberazione. E se è vero che esiste il cosiddetto “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di avanzare nella carriera, di accedere a posizioni dirigenziali e meglio retribuite, è anche vero che queste consistono nell’essere partecipi dello sfruttamento generale dei lavoratori e degli oppressi. Inoltre, in un sistema economico, quello capitalistico, che ha bisogno della manodopera di riserva, la piena occupazione non esiste. L’ingresso massiccio della componente femminile nel mercato della forza-lavoro può coincidere, come è già successo in passato, ad un declino dell’occupazione maschile, con gli uomini brutalmente scaricati nell’inferno della disoccupazione. Per non parlare del fatto che, sempre di più, il lavoro è precario, intermittente e che i salari attuali non permettono di vivere una vita dignitosa, a tal punto che si è tornati a parlare di working poors (lavoratori poveri). Un sistema economico basato sulla massimizzazione del profitto, sul mercato del lavoro e delle merci, sull’accumulazione di ricchezza privata, insomma sull’esistenza strutturale di disuguaglianze, non può garantire l’uguaglianza a nessuno. Dobbiamo certamente lottare per l’occupazione oggi, ma dobbiamo anche lottare per un sistema produttivo pianificato, in cui il lavoro non sia finalizzato dalla creazione di un “plus valore” (un vero e proprio furto del capitalista ai danni del lavoratore); un lavoro in cui non vi sia più estraneità tra il lavoratore e il bene materiale e immateriale che produce; un “lavoro realmente libero” secondo un’espressione cara a Karl Marx.
Il lavoro di cura
Se per lavoro s’intende unicamente quello produttivo, retribuito ed economicamente rilevante, stando ai dati ufficiali, metà della popolazione femminile italiana non lavora; se, invece, si prende in considerazione anche il lavoro riproduttivo, le statistiche cambiano.
Il lavoro riproduttivo implica diverse funzioni: partorire e far crescere la prole, occuparsi delle faccende domestiche, curare i membri della famiglia più bisognosi (bambini, malati e anziani). Questo genere di lavoro è storicamente un lavoro di genere, in quanto sono le donne a svolgere queste mansioni che, tra le altre cose, non vengono riconosciute né socialmente né economicamente. Si sbaglia chi tenta di fare una netta distinzione tra lavoratrice e “casalinga”: ancora oggi lavoro produttivo e riproduttivo si intersecano in maniera inversamente proporzionale nella vita delle donne. Il lavoro fuori casa non esclude quello casalingo: in molti casi, le donne si occupano della casa, dei figli e delle figlie, dei genitori malati o anziani, a discapito della propria carriera e del proprio tempo libero. Sono sempre più diffusi i casi in cui le lavoratrici sono costrette a richiedere permessi o riduzioni dell’orario di lavoro per potersi occupare di un familiare bisognoso.
La problematica è causata da due motivazioni strettamente correlate: una culturale e una politico-economica. L’idea che il lavoro di cura sia una prerogativa esclusivamente femminile è ancora fortemente radicata e questa convinzione viene avallata anche dalle istituzioni statali. Ad esempio, il congedo di maternità e quello di paternità hanno durate diametralmente differenti: dai 5 mesi agli 8 in totale per la mamma (anche adottante), 5 giorni per il padre. Quasi 9 italiane su 10 assistono un familiare disabile o malato, svolgendo un ruolo di caregiver gratuito, precario e gravoso.
Siamo ancora lontane e lontani da quell’uguaglianza di cui si parla tanto e di cui ci dovremmo accontentare: se si sommassero le ore di lavoro produttivo a quelle di lavoro riproduttivo, in media, quanto durerebbe la giornata lavorativa di una donna? Non dobbiamo accontentarci di un sistema che ci chiede di fare figli, ma senza garantirci alcuna stabilità economica e sostegno parentale. Non possiamo continuare a dover scegliere tra famiglia e lavoro, tra tempo libero e cura, tra soddisfazione personale e obbligo morale. Senza una socializzazione del lavoro riproduttivo e un adeguamento dei servizi educativi e sociali alle reali necessità delle lavoratrici, dei lavoratori, delle disoccupate e dei disoccupati l’uguaglianza tanto sbandierata non sarà mai reale, ma soltanto un’inconsistente illusione.
L’emancipazione politica, sessuale e riproduttiva
Il problema dell’oppressione della donna è una questione che riguarda le donne o la classe operaia? Fino a che punto può spingersi l’unità tra donne proletarie e donne borghesi? É possibile risolvere il problema dell’oppressione della donna all’interno del capitalismo?
Come diceva Lenin, l’unico modo di emancipare la donna consiste nell’emancipare l’insieme della classe operaia attraverso la rivoluzione socialista e la costruzione di nuove basi sociali, dove non ci siano sfruttamento e oppressione, e che prevedano la piena parità tra uomini e donne.
L’idea che le donne siano soggetti capaci di compiere scelte autonome in campo politico, sessuale, riproduttivo o in ogni altro ambito dell’esperienza umana, è un’acquisizione molto recente nella storia del pensiero occidentale.
L’esclusione delle donne dalla sfera del discorso e dell’azione pubblica, è sembrata a lungo una necessità indiscussa. La partecipazione delle donne alla gestione della cosa pubblica, con il diritto di voto attivo e passivo, è storia recente, risalendo al 1946, appena un settantennio fa, un tempo che è quello dell’aspettativa media di vita di un essere umano.
Il femminismo ha messo in crisi il nesso necessario tra essere donna ed essere madre, cioè ha rifiutato quello che è stato nei secoli un destino obbligato per le donne: la domanda “sono donna se non sono madre?”
Oggi le donne rispondono a quell’interrogativo con la pluralità delle loro scelte di vita, che possono contemplare o meno la maternità, possono includere il matrimonio o la convivenza, la vita sessuale con persone di un sesso o dell’altro o con entrambi, il lavoro fuori casa e quello domestico. Eppure la forza degli imperativi culturali del passato non si è esaurita, e non mancano i movimenti che premono per rifondare la femminilità sugli attributi biologici, facendone conseguire un ruolo sociale e così riproporre il modello della “famiglia tradizionale”. È questa, in fondo, la vera posta in gioco delle campagne che da anni, in Italia, ma anche in altri paesi del mondo, si oppongono, sotto il segno della resistenza a una fantomatica “dittatura gender”, alla trasformazione dei ruoli di genere e alla libera espressione delle identità sessuali.
Nel 1975, in Italia, Adele Faccio si autodenunciò pubblicamente per aver interrotto una gravidanza, durante una manifestazione dei Radicali, a Roma. Fu arrestata e tante insieme a lei, uscirono allo scoperto sfidando la galera: si è arrivati così, attraverso la forza della parola pubblica delle donne alle leggi che consentono l’autodeterminazione delle donne in materia riproduttiva. Ma a distanza di quarant’anni dalla legge n.194 del 1978 che ha legalizzato l’aborto, in Italia decidere di interrompere una gravidanza è sempre più difficile. La maternità come scelta libera e responsabile è da almeno mezzo secolo la posta in gioco principale per i movimenti delle donne, conquista minacciata dalle forze sociali avverse alla libertà delle donne. In Italia, la questione si aggira con il boicottaggio della legge, che rischia di essere svuotata da un uso improprio dell’obiezione di coscienza e dai tentativi di estenderne l’applicazione anche alla contraccezione d’emergenza.
Il Manifesto Comunista, scritto nel 1848 da Marx ed Engels, cominciava a mettere in discussione la famiglia borghese. Il marxismo ha spiegato il ruolo della famiglia all’interno di una società divisa in classi come un contratto economico, e nella sua funzione primordiale di perpetuare il capitalismo e l’oppressione della donna. Ha fatto di più: ha aperto il cammino alla liberazione della donna. Ha spiegato come l’abolizione della proprietà privata può fornire le basi materiali per trasferire all’insieme della società tutte le responsabilità sociali che ricadono oggigiorno sulla famiglia individuale, come la cura dei bambini, degli anziani, dei malati, l’alimentazione, l’abbigliamento e l’educazione. Il marxismo ha eliminato il carattere utopico del socialismo e della lotta per la liberazione della donna, dimostrando che il capitalismo stesso genera una forza, il proletariato, abbastanza potente da distruggerlo.
L’8 marzo, come tutti i giorni, è necessaria la mobilitazione delle operaie e delle donne, per la presa del potere da parte del proletariato e della rivoluzione che sola potrà garantire la piena e permanente uguaglianza per le donne e per tutti gli oppressi.
La solidarietà internazionale
L’oppressione delle donne ha un carattere mondiale e, anche se con alcune peculiarità nei diversi paesi, in tutto il mondo le donne sono sotto attacco. In Argentina, Polonia, Spagna, viene contrastato il diritto all’aborto. In Italia l’azione lobbistica della Chiesa cattolica produce sempre più risultati devastanti grazie alla pressione esercitata sui medici, perché nell’esercizio della loro professione siano “obiettori di coscienza”. Nei paesi asiatici, dove la produzione ha conosciuto un boom, le condizioni di lavoro sono terrificanti. Nei paesi interessati da guerre civili, in Africa e non solo, le donne vengono rapite, stuprate in gruppo e ridotte in condizione di schiavitù. Molte donne nel mondo subiscono ancora la mutilazione genitale, vengono precocemente gettate tra le grinfie di mariti molto più grandi di loro e sono costrette alla prostituzione. L’implosione della globalizzazione del capitale nel 2007-2008, seguita da un crollo finanziario mondiale e da una Terza Grande Depressione, la peggiore nella storia del capitalismo, ha prodotto devastazioni sociali in tutto il mondo, guerre imperialiste in costante aumento, movimenti di migrazione di massa, ascesa di xenofobia, razzismo, e fascismo, conseguenti mobilitazioni popolari di massa in tutti i continenti, rivolte e rivoluzioni. Esistono enormi minacce per l’umanità, ma anche possibilità senza precedenti per un nuovo “assalto al cielo”, come diceva Marx, dal regno della necessità al regno della libertà. Dobbiamo costruire lotte quotidiane su scala globale ponendo rivendicazioni immediate nel presente, ma senza mai mettere da parte la necessità della presa del potere da parte della classe oppressa, il proletariato, al fine di arrivare ad un cambiamento rivoluzionario del sistema produttivo e del rapporto di potere tra le classi.
Perché donne “lavoratrici”
Per donne “lavoratrici” si intendono tutte quelle donne che appartengono alla classe sociale dei lavoratori/operai, ovvero tutti quelli che nella società attuale devono svolgere
un’attività produttiva retribuita per potersi procurare i mezzi di sostentamento. Sono donne “lavoratrici” anche le donne disoccupate e coloro che svolgono lavoro di cura dei familiari senza retribuzione e a tempo pieno. Le donne “lavoratrici” fanno dunque parte di quel 99% della popolazione mondiale sfruttata dai proprietari dei mezzi di produzione, ovvero i datori di lavoro. Il sistema attuale, il capitalismo, accetta e promuove la proprietà privata e le disuguaglianze economiche. È basato infatti sull’accumulazione della ricchezza privata e sul rapporto conflittuale tra chi ha le risorse necessarie per non avere bisogno di lavorare per vivere e chi è costretto a vendere la
propria forza lavoro per poter accedere ai mezzi di prima necessità. Gli interessi di queste due classi sono chiaramente contrastanti: gli sfruttatori vogliono fare il maggiore profitto possibile a discapito delle condizioni di lavoro e dei salari degli sfruttati e questi
ultimi cercano di tenere testa ai soprusi con scioperi e lotte. Riteniamo sia indispensabile
che la classe degli sfruttati, la classe operaia, prenda il potere, instauri una economia “pianificata” non basata sul profitto e sull’accumulazione privata e cancelli di fatto l’esistenza delle classi, liberando il mondo dallo sfruttamento, seguendo l’esempio della gloriosa Rivoluzione Russa del 1917.