Di D.T.
I risultati delle recenti elezioni regionali offrono una panoramica abbastanza fedele dell’instabilità dello scenario politico e mostrano, una volta di più, i limiti dell’ascesa politica di Salvini. Al tempo stesso il governo, che allontana temporaneamente lo spettro delle elezioni anticipate, non ha alcuna ragione per tirare un sospiro di sollievo.
Le elezioni regionali
In Emilia Romagna il candidato del centrosinistra Bonaccini vince con 9 punti percentuali sulla candidata leghista Borgonzoni (circa 180 mila voti di scarto con una parziale ripresa dell’affluenza e col record del 71% a Bologna) e frena la serie di vittorie salviniane in altre regioni (otto consecutive sino ad oggi). Nonostante l’investimento nazionale in queste elezioni da parte della Lega e l’onnipresenza di Salvini tanto sul territorio quanto in TV, la Lega non riesce a battere il candidato del PD. Diverse sono le ragioni di questa battuta d’arresto. Non solo la consolidata diffidenza del grande capitale (si veda il voto nelle città grandi e soprattutto a Bologna) nei confronti di Salvini (almeno sino ad oggi) ma soprattutto il fatto che L’Emilia Romagna, vede una sostanziale tenuta, almeno nelle città, di un PD che, a differenza di qualunque retorica sulla regione “rossa” (e pertanto della continuità PCI-PDS-DS-PD), è di fatto già “leghizzato”: la giunta uscente di centrosinistra, come le giunte di destra in Lombardia e Veneto, porta avanti il processo dell’autonomia differenziata, difatti una “secessione dei ricchi” la cui continuità è stata prontamente ribadita dal vincente Bonaccini; per non parlare del protagonismo dei sindaci del PD nel concorrere con la Lega sulle politiche reazionarie anti migranti. Anche in considerazione di questa concorrenza col PD “leghista”, Salvini ha dovuto spingere all’estremo le caratteristiche più becere e xenofobe della Lega (si veda l’episodio del citofono a Bologna) con l’effetto di allontanare ancora di più settori delle classi medie (soprattutto in città) orientati verso un voto centrista. L’Emilia-Romagna, sebbene statisticamente (sia per ISTAT che per EUROSTAT) sia una regione del nordorientale, sotto il profilo socioeconomico e della struttura produttiva è una sorta di regione di transizione tra il Nord-Ovest e il Nord-Est del paese, e riunisce caratteristiche di entrambe le macroaree. La presenza della motor valley (Ferrari, Lamborghini, Maserati, Ducati, ecc.) e di altri rami industriali ad alta concentrazione garantisce un legame solido col PD, partito centrale del grande capitale italiano; al tempo stesso la vocazione agricola di una parte significativa della regione, soprattutto a ridosso di Lombardia e Veneto, vede, nel contesto generale della crisi di egemonia del grande capitale nei confronti delle classi medie (soprattutto in campagna), una prateria per l’avanzata della destra salviniana, che infatti ha conosciuto negli ultimi anni un exploit sotto il Po.
Le tre liste a sinistra del PD raccolgono insieme il 1.2% dei consensi. Vittime di una analisi impressionista del fenomeno Salvini, hanno impostato l’intera campagna elettorale sulla necessità di fermare la Lega senza dare al proprio intervento un profilo che andasse al di là della sterile rivendicazione di un programma riformista o di una rivendicazione identitaria svuotata da qualunque progetto di ricostruzione di una forza basata nella classe operaia.
In Calabria il centrodestra, con un’affluenza di appena il 42%, vince nettamente (55,4%), con un margine di oltre 20 punti rispetto al 30,1% dell’avversario del centrosinistra Filippo Callipo e restituisce, come preventivato e senza sorprese, la regione alla destra. In Calabria Forza Italia prende il doppio dei voti della Lega confermando il limite di Salvini (come rappresentante degli interessi dell’industria mediopiccola del Nord) nell’approfittare della crisi del berlusconismo al Sud e inserirsi nel sistema di potere locale che il berlusconismo ha ereditato dalla DC. La spesa pubblica degli amministratori del Sud è incompatibile con la politica dell’autonomia differenziata, e tuttavia essa è la principale ragione della tenuta della destra berlusconiana (ed ex DC) al Sud. Questo, per Salvini, è un conflitto irrisolvibile, e lo sarebbe tanto più se la sua ascesa su scala nazionale riuscisse a portarlo al governo in una posizione dominante.
La crisi del M5S…a vantaggio delle Sardine…e del PD
Ciò che colpisce di più in queste elezioni è il crollo verticale del consenso del Movimento 5 Stelle che in Emilia-Romagna raccoglie appena il 3.48 % (102595 voti) contro i 290mila delle europee 2019 e i 661mila delle politiche del 4 marzo 2018. In Calabria, il M5S passa dal 43 al 7 % e resta fuori dal Consiglio Regionale. Il M5S ha conosciuto una serie ininterrotta di disfatte in tutte le elezioni regionali dalle politiche del 2018 ad oggi: Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Umbria, Emilia e Calabria. Secondo diversi analisti, circa due terzi dei voti che negli ultimi anni sono andati al Movimento, in questa tornata sono andati al PD. Significativo, a tal proposito, è il ruolo che, proprio in Emilia e soprattutto a Bologna, ha avuto il movimento delle sardine. La contesa è avvenuta proprio in quel settore, soprattutto di gioventù (prima collocato a sinistra), che aveva guardato al M5S con interesse, salvo poi registrare la cedevolezza nei confronti della Lega durante l’esperienza del governo gialloverde. Le sardine hanno avuto il compito, senza esporsi palesemente a favore del PD, di riportare questo settore a votare per il centrosinistra, nell’ottica della costruzione di un argine alla destra salviniana.
Le dimissioni di Di Maio da leader del Movimento, pochi giorni prima delle elezioni, annunciano appena le convulsioni interne al M5S che si dibatte tra la tendenza, oggi oggettivamente rafforzatasi, alla “normalizzazione” e all’assorbimento nel o accanto al PD (riflesso dell’impossibilità della piccola borghesia, pur riottosa, di avere una politica indipendente dal grande capitale) e il tentativo (impossibile da realizzare) di recuperare il carattere d’opposizione delle origini (Di Battista ed altri), passando per la linea “neutralista” di Di Maio che vorrebbe il M5S ago della bilancia tra i due poli. La resa dei conti agli stati generali di marzo del M5S può aprire ad una balcanizzazione del movimento e di fatto alla sua morte.
L’apparente ritorno al bipolarismo
Chi in questi giorni, in seguito al ridimensionamento del M5S, parla di ritorno al bipolarismo non tiene in considerazione il contesto economico e politico generale. Un ritorno al bipolarismo degli anni ’90 è impossibile poiché è impossibile riprodurre le condizioni internazionali che permisero quella stagione: l’economia italiana (e quella occidentale in generale) tirò un sospiro di sollievo dopo la crisi del 92/93 e nel contesto della globalizzazione e della restaurazione capitalista, e il sistema politico poté provvisoriamente stabilizzarsi intorno ai due poli del centrosinistra e del centrodestra, che assorbirono il ceto politico della DC e del PSI. L’attuale contesto internazionale è segnato dalla prolungata crisi economica mondiale, dalla guerra commerciale e dalla fine del sistema di relazioni internazionali che aveva caratterizzato il periodo successivo all’inizio della restaurazione capitalista in URSS e Cina. La gestione materiale della crisi, a partire dalle politiche di austerità, impedisce qualunque stabilizzazione tanto delle singole forze politiche quanto del sistema politico-parlamentare nel suo insieme. Al contrario, l’aggravarsi della crisi economica, nel contesto di una nuova recessione globale peggiore di quella del 2007/2008, avrà come conseguenza l’ulteriore frammentazione del quadro politico.
Il governo Conte e l’impossibilità di stabilizzazione
I risultati elettorali, al di là di qualunque stabilizzazione, mettono in fibrillazione il governo. Certo si allontana il pericolo di urne anticipate in caso di vittoria della Lega in Emilia, ma la crisi verticale del Movimento 5 Stelle e la faida interna per il controllo, unite all’ansia nel passare all’incasso da parte di Zingaretti, possono accelerare ulteriormente la competizione nel campo liberale con Renzi, e spingere quest’ultimo a togliere il sostegno al governo, magari usando come pretesto l’annunciato voto favorevole alla cancellazione della riforma Bonafede della prescrizione.
Dal punto di vista economico, il governo Conte deve la sua sopravvivenza temporanea al clima favorevole sui mercati dovuto al rilancio del Quantitative Easing, divenuto ormai cronico. Questo consente al governo Conte il taglio del cuneo fiscale (circa 3 miliardi di euro) e la misura di integrazione per i redditi sotto i 28mila euro e di detrazione per i redditi superiori.
Dal punto di vista politico, è e resta, nonostante la vittoria in Emilia, un governo debolissimo, tenuto in piedi dal fatto che non ha un’opposizione nella società. Ne ciò che resta della sinistra, né i sindacati, e tantomeno la CGIL, si oppongono ad un governo che al netto della propaganda, continua l’opera di tutti i governi borghesi precedenti, a partire dall’amministrazione dell’austerità. È urgente la costruzione di un’opposizione politica e sindacale al governo Conte a partire dall’organizzazione di uno sciopero prolungato sull’esempio francese, in grado di combattere contro il programma antioperaio del governo Conte.