Emergenza rifiuti a Roma: bilanci e profitti prima della salute delle persone

di NI

Quest’estate è tornata ad essere d’interesse nazionale l’emergenza rifiuti a Roma. A fine giugno si è registrato per la città un deficit di trecento tonnellate al giorno d’indifferenziata. Una tonnellata di rifiuti su nove è rimasta in strada per problemi legati alla carenza di mezzi per la raccolta e di impianti per il trattamento e lo smaltimento. La situazione è precipitata in pochissimo tempo, con strade piene di sacchi della spazzatura, odori nauseabondi e rischio di diffusione di sostanze tossiche, per l’incendio di cassonetti, e di batteri, attraverso ratti, insetti e volatili, attirati dalla decomposizione accelerata dal caldo dei rifiuti lasciati per strada.

L’emergenza è stata collegata in particolar modo alla situazione dei due impianti Tmb (Trattamento Meccanico Biologico) di Malagrotta, che raccolgono la maggior parte dei rifiuti della capitale e che a causa dei lavori di manutenzione iniziati il 25 Aprile hanno dovuto ridurre le tonnellate di immondizia trattate ogni giorno. Per di più un incendio nel dicembre dello scorso anno ha distrutto un altro Tmb in via Salaria. Roma si è quindi trovata a fare i conti con un’emergenza resa ancora più critica dall’assenza di siti di stoccaggio provvisorio, presenti, invece, nella maggior parte delle città italiane per gestire emergenze dovute a manutenzioni o guasti.

Nonostante i lavori di manutenzione per Malagrotta fossero cosa nota con molto anticipo, non è stato organizzato alcun piano alternativo di smaltimento dei rifiuti in tempi utili e per superare il momento difficile si è resa necessaria un’ordinanza straordinaria rilasciata dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione affinché tutti gli impianti di trattamento del Lazio potessero garantire la massima operatività nell’accogliere i rifiuti prodotti dalla città di Roma e ridurre così la parte destinata a impianti fuori dal Lazio e dall’Italia, la quale tra l’altro incide pesantemente sulle casse del Comune.

I limiti della giunta Raggi e la crisi dell’Ama

Tale situazione ha messo a fuoco tutti i limiti della giunta Raggi e dell’intero progetto politico dei 5 Stelle. Oltre a limiti gestionali, in evidenza soprattutto durante la fase emergenziale, erano evidenti fin da subito quelli del programma presentato in campagna elettorale, il quale poneva la questione rifiuti come uno dei punti centrali, facendo promesse roboanti che probabilmente neanche la giunta più virtuosa avrebbe mai potuto mantenere. Il frutto di questi fallimenti è da ricercare nella totale mancanza di contestualizzazione del periodo storico in cui si andava ad agire, un contesto di crisi economica e di mancanza di fondi per i Comuni. Infatti ci siamo presto trovati di fronte al blocco dell’iter per la costruzione di due impianti di compostaggio sui territori di Cesano e Casal Selce, a causa di pareri negativi del Campidoglio sui vincoli paesaggistici ed espropri dei terreni troppo esosi per le risorse del Comune. Di altri 11 impianti Ama, presenti nella bozza del piano industriale, invece non sono ancora noti costi, luoghi e tempi. La promessa di aumentare la differenziata dal 41% del 2016 al 70% entro il 2021 ha portato a risultati del tutto insoddisfacenti, come la riduzione dal 2017 (44,3%) al 2018 (44%). Il nuovo contratto di servizio dell’Ama punta al 50% quest’anno e al 55% nel 2020.

Nel programma si parlava anche di un piano di efficientamento di AMA, di miglioramenti di produttività dei servizi forniti e dello stato di efficienza della flotta veicoli senza fare i conti con il momento di grande crisi che quell’azienda stava e sta ancora attraversando. Attualmente solo il 55% dei suoi mezzi è funzionante, il bilancio del 2017, approvato solamente lo scorso agosto, segnala una perdita pari a 136 milioni di euro e l’azienda soffre di una strutturale carenza di personale.

Il capro espiatorio per buona parte dell’opinione pubblica è rappresentato dai netturbini, finiti spesso per essere aggrediti dai cittadini nell’orario di lavoro e attaccati dalla stampa borghese per un molto parziale aumento di stipendio o per qualche giorno in più di malattia, spesso resosi necessario tra l’altro proprio da tale tipo di attività lavorativa, come è successo durante l’ultima emergenza quando su 4.000 netturbini attivi sono arrivati 1.000 certificati medici per problemi cutanei legati alla raccolta a terra o difficoltà respiratorie per i miasmi della putrefazione.

Roma è soltanto la punta dell’Iceberg di un’emergenza planetaria

A Roma, come in altre situazioni delicate, un’amministrazione per quanto virtuosa possa essere si ritroverà sempre a fare i conti con i bilanci comunali e con la mancanza di fondi necessari ad investire in nuove tecnologie meno inquinanti. E qualora riuscisse a mantenere la città libera dai rifiuti, le sostanze tossiche le ritroveremmo ugualmente nell’aria e continuerebbero ad attaccare la salute delle persone e del pianeta.

Per molti a sinistra un esempio di giunta virtuosa era quella di Marino. È vero che durante il suo mandato si era registrato un aumento del 11% della differenziata ed era pronto un piano di smaltimento rifiuti che prevedeva la costruzione di ecodistretti dotati di biodigestori, piano comunque poi cestinato (sotto la coltre politica, certamente per motivazioni economiche). Il ricordo che però ci ha lasciato non è quello di una città pulita, emergenze simili cominciarono a seguito della chiusura sacrosanta della discarica Malagrotta, ma di una città amministrata con tagli ai servizi pubblici (asili comunali, mense scolastiche, ecc.) e aggressioni al contratto dei lavoratori municipali per far quadrare i conti, sostanzialmente in linea con la politica del suo partito (PD).

La stampa capitalista e le opposizioni finiscono spesso per attaccare i 5 Stelle perché contrari alla costruzione di inceneritori e discariche. Anche noi osteggiamo fortemente queste soluzioni, perché, qualora fossero risolutive per l’emergenza (impossibile visto i ritmi della produzione ancor più che del consumo), non terrebbero conto dell’impatto ambientale e sanitario. Si tornerebbe a una situazione simile a quella della discarica di Malagrotta chiusa nel 2013 da Marino e dichiarata fuori norma nel 2007.

La questione rifiuti a Roma è solo una punta dell’enorme iceberg della crisi ambientale planetaria. Finché si continuerà a guardarla come un problema amministrativo o una questione di decoro urbano, tema tanto caro a tutte le liste nelle campagne elettorali, non si faranno mai i conti con una realtà assai più complessa. L’enorme mole di rifiuti per strada dovrebbe farci riflettere su quanta immondizia viene prodotta da una metropoli come Roma. L’indagine “Comuni Ricicloni 2019”, presentata nella capitale lo scorso giugno all’EcoForum, ha rilevato che in Italia ogni persona produce in media 487 chili di rifiuti all’anno.

Ma è la quantità della produzione industriale il cuore del problema. Ci troviamo in un momento storico in cui si produce assai di più rispetto a quello che si consuma e che si riesce a smaltire in maniera ecologicamente sostenibile (di per sé una chimera nel capitalismo, figurarsi in una fase di crisi del capitalismo come quella attuale). I risultati di tale paradosso sono sotto i nostri occhi: cambiamenti climatici, siccità, peggioramento della qualità dell’aria (il 92% della popolazione del pianeta vive in luoghi dove il livello della qualità dell’aria ha superato i limiti fissati per legge, secondo il rapporto dell’OMS), aumento delle malattie infettive dovute all’aumento delle temperature medie. La sovrapproduzione è strettamente legata al concetto di sviluppo infinito, base del capitalismo, che ora però si scontra con i limiti reali, imposti dalla natura. L’intero pianeta non può essere concepito come una proprietà privata di risorse da sfruttare per perseguire profitto.

La lotta per l’ambiente, quindi, per essere efficace non può non passare per la lotta al capitalismo e per l’abolizione del suo modo di produzione (e sovrapproduzione!). Del resto, come abbiamo avuto modo di vedere nel piccolo a Roma, né l’ambientalismo populista dei 5 Stelle né il capitalismo verde di Marino (così come quello dei Verdi Europei, quello di Greta Thunberg, quello della “decrescita felice” e qualsiasi altro) che non mettono in discussione l’attuale sistema economico ma si limitano a gestire l’esistente per conviverci senza rompere con esso, potranno mai rappresentare una reale soluzione.

Bilanci e profitti non possono venire prima della salute delle persone e del pianeta.

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