La crisi dell’Unione Europea e l’imperialismo franco-tedesco

di La Redazione

L’Europa, patria del declinante capitalismo, dopo più di un decennio di stallo politico e istituzionale, assiste alla crisi verticale dell’Unione Europea. Non è sinora riuscita ad avanzare verso una maggiore integrazione politica e istituzionale a causa della crisi economica e della tendenza dei grandi gruppi capitalisti “nazionali” ad usare gli stati-nazione come scudo, e non può tornare indietro a ciò che c’era prima del mercato comune a causa dell’elevato livello di integrazione delle rispettive economie e della necessità vitale di operare in un mercato grande, che renda sostenibili grandi investimenti e una produzione su una scala superiore a quella nazionale (in un contesto internazionale che vede scontrarsi giganti economici e demografici).

La questione della Brexit occupa un ruolo cruciale. L’accordo negoziato con l’UE – e più volte respinto dal parlamento – vede il governo di Theresa May sotto il fuoco incrociato degli hard brexiters e dei remainers. I primi sono del tutto incapaci di poter offrire un’alternativa reale al governo della May e all’accordo conseguito. Non a caso l’UKIP è in una crisi che ha portato alle dimissioni di Nigel Farage – con la fondazione da parte di quest’ultimo di un nuovo partito brexiter – e i Tories contrari all’accordo (Boris Johnson) sono ben lungi dal trovare una quadra e riuscire a organizzare un governo alternativo. Il contenuto dell’accordo riflette l’integrazione dell’economia britannica in quella europea e la dipendenza da essa. Il settore delle classi dominanti che vide con interesse l’uscita dall’UE, ossia l’aristocrazia finanziaria, dominata in lungo e in largo dal capitale statunitense, è oggi completamente incapace di organizzare un’iniziativa politica in grado di ricomporre una proposta unitaria, un quadro d’insieme. Il governo conservatore riflette questa contraddizione nella sua stessa composizione, ed è oggi sotto ricatto da parte di Trump. Ciò acuisce ulteriormente la crisi politica nel Regno Unito, di gran lunga superiore alla sua crisi economica e tuttavia in grado di approfondirla sensibilmente. Da una parte le esigenze di scala, soprattutto dell’industria manifatturiera, tanto britannica quanto straniera, che impongono la permanenza nel mercato unico. Dall’altra l’esigenza della “City” di svincolarsi dalle regole finanziarie dell’UE, trasformandosi in una piattaforma finanziaria, e cercare un accordo con Trump e la Cina, fortemente interessata all’internazionalizzazione dello yuan sulla piazza di Londra. Questo conflitto nel seno del Partito Conservatore non è inedito. Già in occasione della guerra delle Malvinas il settore Tory legato all’aristocrazia finanziaria era nettamente contrario all’invio della Royal Navy per recuperare le Malvinas occupate dalla dittatura militare argentina. Prevalse invece la posizione di Margaret Thatcher e del settore del partito legato alla borghesia industriale. Questa guerra intestina alle classi dominanti investe la stessa tenuta del Regno Unito, con la Scozia che minaccia l’uscita dal Regno in caso di Brexit e con la possibilità di una ri-esplosione del conflitto nordirlandese, in seguito al probabile ristabilirsi di una frontiera tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda.

In questo contesto si assiste a due fenomeni paralleli: da un lato una tendenza generale dell’Unione Europea alla disintegrazione come prodotto di forze centrifughe, messe in moto dalla crisi (di cui la Brexit è il caso più importante), e di forze centripete (indipendentismo catalano, scozzese e fiammingo), prodotto del processo di circolazione e centralizzazione del capitale che ha il suo cuore in Germania; dall’altro il rilancio dell’asse franco-tedesco e la proposta di un salto di qualità nell’unificazione europea, a partire dai Paesi dell’eurozona. È la dimostrazione che la disintegrazione non riguarda una qualunque unità quanto piuttosto il progetto utopico di una unificazione pacifica del continente europeo (“Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo … gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero impossibili o reazionari”, Lenin 1915). I due casi precedenti nei quali l’Europa è stata politicamente unita sono avvenuti entrambi nello scenario della guerra e dell’occupazione militare del continente, da parte della Francia napoleonica prima e della Germania hitleriana poi, entrambe all’assalto – fallito – della Russia. Proprio questi due Paesi sono oggi i protagonisti di un tentativo di rilancio del progetto europeo con una più stretta unificazione economica (bilancio comune della zona euro) e politica (Trattato di Aquisgrana), e con la proposta di costruire un esercito europeo svincolato dalla NATO (oltre che un servizio di intelligence comune). Nel contesto generale, precedentemente segnalato, di un inasprimento delle relazioni tra i Paesi imperialisti nel quadro di una guerra imperialista alla Russia (e alla Cina), l’imperialismo francese e quello tedesco, consci della loro debolezza – se considerate come potenze isolate – e della subordinazione alla NATO, si organizzano per partecipare alla spartizione del bottino, da una posizione indipendente. A favore del progetto gioca un’unità economica, industriale ed infrastrutturale soprattutto del centro del continente (l’eurozona), con una dinamica che replicherebbe, in caso di successo, la trasformazione dello zollverein tedesco (unione doganale) nella Germania unificata bismarckiana. Proprio quell’episodio storico vide la fine del Deutscher Bund al quale partecipava anche l’Austria (che invece non era parte dello zollverein) e l’accelerazione nell’unificazione della Kleine Deutschland (piccola Germania, ossia senza l’Austria) come risultato della guerra austro-prussiana del 1866. Il rilancio del processo d’unificazione a guida franco-tedesca è reso possibile, prima ancora che dall’escalation della guerra commerciale di Trump, dalla Brexit, ossia dalla potenziale uscita di scena di un Paese con una minore integrazione rispetto al resto del continente, a partire dalla politica monetaria. Ciò che invece gioca contro questo progetto è la forza degli stati nazionali (superiore a quella dei principati tedeschi assimilati dalla Prussia) dovuta alla loro centralità nell’essere i salvatori di ultima istanza di banche e grandi aziende, nonché la residua presenza di decine di migliaia di soldati americani sul continente europeo.

Questo tentativo di rilancio imperialista europeo avviene in un contesto di grande crisi politica dei due soggetti principali. In Germania, la CDU, all’imbrunire del ciclo di Angela Merkel, è in crisi, incalzata alla sua destra dall’avanzata degli estremisti di AfD. In Francia, Macron affronta il combattivo movimento dei “gilet gialli” che, a partire dalle proteste inizialmente convocate per respingere l’accisa sulla nafta, si trova al sesto mese di mobilitazione, nonostante il ritiro del progetto iniziale e l’annuncio dell’aumento dello SMIC (salario minimo intercategoriale). L’originaria mobilitazione a composizione prevalentemente piccolo borghese (autotrasportatori, tassisti, piccoli commercianti, ecc..) ha finito per trascinare con sé una massa sempre più grande di lavoratori salariati, non ancora mobilitati con le proprie strutture tradizionali, in primo luogo i sindacati, ma con un altissimo livello di combattività.

L’eventuale unificazione imperialista europea si differenzia dall’unificazione tedesca e italiana in merito ad una questione principale. Queste ultime avvennero nel XIX secolo in un contesto di generale ascesa del capitalismo, la quale permise agli Stati preunitari, e soprattutto agli Stati egemoni tra essi (Prussia e Piemonte), di costruire un grande mercato interno e trasformare profondamente le residuali relazioni sociali precapitalistiche, il che dava ai due processi un carattere storicamente progressivo, benché siano avvenuti in ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale e benché, in riferimento all’Italia, si sia conosciuta una sanguinosa campagna di repressione contro i contadini ringalluzziti dalla guerriglia garibaldina ( il “brigantaggio”).

La tortuosa e contradditoria costruzione di una Europa unita a guida franco-tedesca, invece, non ha nulla di progressivo. Il suo scopo non è affossare le classi dominanti precapitalistiche ma rafforzare il dominio sul proletariato e competere con gli USA nel quadro generale della restaurazione capitalista in Russia e Cina. La sinistra rivoluzionaria deve lottare affinché la classe operaia europea sconfigga qualunque idea di una Europa “sociale e democratica”, architrave programmatica della sinistra centrista democratizzante.

È fondamentale ricordare che il processo di costruzione delle democrazie borghesi, ogni volta che ha conosciuto un allargamento del corpo elettorale in “basso” ha avuto come risultato una concentrazione dei poteri in “alto”. Un eventuale salto di qualità nell’integrazione istituzionale (elezioni diretta di un “governo” europeo, allargamento dei poteri del parlamento europeo, ecc…) avrebbe come risultato un ulteriore rafforzamento del dominio dei monopoli europei e un contesto favorevole ad una loro nuova concentrazione nei rami industriali più importanti (fusione Alstom-Siemens, ecc..).

Allo stesso tempo, occorre inquadrare l’ascesa delle forze “sovraniste”, troppo facilmente chiamate “fasciste”, nel contesto generale dell’assenza di una mobilitazione rivoluzionaria dei lavoratori. Il fascismo non sorge in una fase qualsiasi, ma in una fase di ascesa rivoluzionaria della lotta di classe e di collasso irreparabile dello Stato borghese. Palesemente, non assistiamo né al primo né al secondo fenomeno. L’ascesa del fascismo è storicamente possibile solo in un contesto segnato dall’impossibilità della democrazia parlamentare borghese di arginare la lotta di classe. È in questa crisi di regime che interviene il fascismo a rafforzare il dominio borghese sulla società. Ma l’ascesa della destra odierna, dopo 70 anni di integrazione capitalista europea e dipendenza dal mercato unico e dalla scala continentale della produzione, non può che significare il rafforzamento del potere delle banche e dei monopoli nel contesto di un’Europa unita, o unificata con la forza. L’esperienza governativa della Lega guidata da Salvini in Italia, dei sovranisti austriaci, come pure del blocco di Marine le Pen con Macron contro i gilet gialli, dimostra che, oltre la cortina di fumo della propaganda, le forze “fascistoidi”, radicate nella classe media e nella piccola borghesia, non sono capaci di una politica indipendente dal grande capitale e finiscono per convertirsi in suo strumento.

In questo quadro internazionale così complesso, che vede l’Unione Europea nell’occhio del ciclone, l’Italia appare l’anello debole della catena. Il suo sistema bancario è fortemente in crisi, l’industria vede una formidabile paralisi, il paese nel suo insieme ha un debito pubblico gigantesco, col suo costo per interessi destinato ad aumentare vertiginosamente. La fine del Quantitative Easing della “Banca Centrale Europea” apre una fase di instabilità, economica e politica, ancora maggiore. Il declassamento operato dalle agenzie di rating fa sì che l’Italia dovrà pagare interessi maggiori per nuovi prestiti, creando un circolo vizioso che non ha altro sbocco che in un default, il quale trascinerebbe con sé il resto dell’economia europea, soprattutto Francia e Germania, grandi possessori del debito pubblico italiano (e principali attori del rilancio del progetto imperialista europeo). Le regioni del Nord, più ricche delle altre, rivendicano un trattamento differenziato relativamente alle risorse fiscali (“autonomia differenziata”) riducendo la capacità di Roma, centro amministrativo del paese, di ripartire la ricchezza mediante ciò che resta della già ridotta spesa pubblica. È a repentaglio l’esistenza stessa di un’Italia unita, e di conseguenza dell’unità della classe lavoratrice.

La crisi italiana, episodio della crisi capitalista mondiale, dimostra il declino specifico del capitalismo italiano. Terminata la “spinta” del Piano Marshall, priva di materie prime, con una demografia limitata rispetto ai giganti mondiali e con una parte del territorio economicamente depressa e lontana sia geograficamente che dal punto di vista infrastrutturale dal resto del continente, l’Italia non ha alcuna possibilità di resistere fuori dal mercato unico europeo e dalla sua moneta. A differenza del Regno Unito, la cui probabile uscita dall’UE troverebbe una leva nell’attività finanziaria di Londra, già restia negli anni scorsi a sottoporsi ai regolamenti bancari europei, l’Italia vede le sue attività principali dipendere fortemente dal mercato unico.

Il rilancio del progetto imperialista europeo a guida franco-tedesca, nel contesto dell’inasprimento delle relazioni europee con gli Usa, espone l’Italia ad una serie di convulsioni riguardo la sua collocazione sullo scacchiere internazionale. Nessuno dei due poli imperialisti rinuncerà facilmente all’Italia, con quest’ultima sempre più esposta, da una parte alla forza attrattiva (e potenzialmente distruttiva dell’unità statale) del salto di qualità politico e istituzionale dell’eurozona, dall’altra al rilancio del militarismo americano e al suo tentativo di dissoluzione dell’Europa (facendo leva sui “sovranisti” al governo, essi stessi sottoposti, come dimostrato dal caso italiano e da quello austriaco, alla pressione delle rispettive borghesie).

Nell’ottica del prossimo collasso finanziario, con la crisi congiunta del sistema bancario e dell’industria, è fondamentale che la sinistra rivoluzionaria europea emerga come alternativa tanto ai sovranisti quanto all’establishment liberale, collegando le lotte “economiche” ad una prospettiva di potere. All’Europa di Macron, Merkel e Juncker, come a quella di Le Pen, Salvini e Orban, occorre contrapporre gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, con governi dei lavoratori da Lisbona a Vladivostok.

Prospettiva Operaia

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