di Cristian Canete (Partido Obrero – Argentina)
La guerra tecnologica
Immediatamente dopo la “dolorosa deportazione” di Huawei e delle tecnologie cinesi da parte degli americani, il presidente cinese Xi Jinping ha risposto con un’eloquente presa di posizione visitando personalmente la fabbrica di “terre rare” (per terre rare si intende la composizione di 17 elementi chimici presenti in natura utilizzati per la fabbricazione di apparecchi tecnologici, ndt) a Ganzhou nella Cina centrale. Questo atto, inteso come una minaccia nel taglio delle esportazioni, avrebbe lasciato di stucco il governo degli Stati Uniti secondo l’opinione generale dei commentatori internazionali. Le “terre rare” sono un insieme di 17 elementi chimici indispensabili per la fabbricazione delle più moderne tecnologie, dai telefoni alle auto elettriche fino alle più moderne armi militari. La Cina produce più del 95% di terre rare del mondo e gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per l’80% delle proprie importazioni (Ámbito, 29/5). Il forte impatto ambientale generato dallo sviluppo di questa industria e dalla scarsità di giacimenti conosciuti, fanno di questa risorsa l’asso nella manica cinese per mettere in ginocchio Trump.
Parallelamente a questa minaccia sta proseguendo la causa legale di Huawei contro il governo Trump per l’incostituzionalità delle restrizioni contro la società, richiesta di incostituzionalità di cui il governo cinese ha fatto una bandiera sia sul piano delle discussioni diplomatiche sia nella politica interna, scatenando un forte sentimento nazionalista da parte dei cinesi. Tanto che il crollo delle vendite di iPhone in Cina ha provocato un ulteriore mal di testa all’amministrazione Trump.
Tuttavia la deportazione di Huawei non è progredita. Il “Cowboy” ha dovuto rinviarla di tre mesi, cedendo alla pressione della propria industria tecnologica che ha visto crollare le quotazioni di borsa. D’altra parte, l’alto grado di relazioni tra componenti cinesi e americane è diventato evidente: semplicemente non è possibile sostituire la tecnologia cinese dal giorno alla notte, occorre tempo per poterlo fare gradualmente. In terzo luogo, le società tecnologiche americane Dell e Microsoft e la sudcoreana Samsung hanno esercitato forti pressioni affinché Trump eliminasse le restrizioni su Huawei per timore che la Cina li inserisse nella propria lista nera, la qual cosa sarebbe semplicemente catastrofica. Dopo la sospensione delle restrizioni per 3 mesi, il governo cinese, senza alcuna ambiguità, ha convocato le autorità di queste società e ha dato loro un serio avvertimento: saranno punite se rispetteranno i divieti di Trump (Clarín, 9/6). Non è solo un avvertimento; recentemente la Cina ha vietato l’uso del sistema operativo Windows in campo militare riprendendo il classico argomento yankee della “difesa della sicurezza nazionale” (“i colpi rientrano dal lato da cui partono”, vecchio motto della boxe) e la Russia ha fatto lo stesso in un’azione concertata inoccultabile (Xataca, 3/6). Da parte sua, Google ha anche chiesto al governo americano di revocare il divieto per Huawei, anche se per ragioni più precise: data l’impossibilità delle aziende cinesi di utilizzare Android, esse non hanno altra alternativa che sviluppare un proprio sistema operativo, il quale sarà un duro rivale del sistema sviluppato da Google, e segnerà la fine della posizione quasi monopolistica di Android nel mercato della telefonia mobile (RT, 8/6). Ora la sospensione delle restrizioni contro Huawei per un periodo di due anni sarebbe in discussione all’interno del governo Trump (come rivelato dal Washington Post il 9 giugno). Una ritirata imbarazzante.
Il 5G e la disputa per il futuro grande mercato
Uno dei principali timori degli americani è che lo sviluppo avanzato del 5G da parte dei cinesi (con Huawei in testa) comporterà la perdita di leadership nel mercato tecnologico nel futuro, in primo luogo la cosiddetta “internet delle cose”. È per questo motivo che, servendosi dell’argomentazione della benedetta “sicurezza nazionale”, Trump ha inviato direttive a diversi governi per accompagnare la frenata dei cinesi. La Gran Bretagna è stata una delle prime a sostenere la crociata, aderendo alla minaccia di sanzioni contro le aziende che commerciano con Huawei. Tra gli altri paesi hanno aderito anche il Giappone, la Nuova Zelanda e l’Australia.
Da parte loro, i cinesi hanno sviluppato accordi strategici con la Russia, si tratta di un’alleanza che prevede una collaborazione commerciale, politica e militare; uno dei pilastri fondamentali è lo sviluppo della cosiddetta nuova “Via della Seta”: un ambizioso progetto a lungo termine che cerca di ridisegnare la mappa del commercio asiatico-europeo sotto la guida delle infrastrutture cinesi, in collaborazione con la Russia e altri paesi. Con la sola eccezione della Gran Bretagna, nessun paese in Europa vuole perdere i vantaggi del 5G cinese, pertanto il “veto” a Huawei non ha avuto successo. Si stima che gli americani siano in ritardo di 2 anni; quando raggiungeranno la qualità della 5G cinese, il mercato mondiale sarà già totalmente dominato dagli orientali.
Messico e Germania
Tra i paesi europei di particolare interesse, la Germania è leader nella tecnologia nota come “internet delle cose”. Non solo la Germania non volge le spalle ai cinesi, ma ha anche stabilito un’alleanza strategica con loro. Entrambi i paesi, Germania e Cina, stanno negoziando con il governo messicano di López Obrador, al fine di fare del Messico la principale porta d’accesso al mercato latinoamericano, e perché no, anche in direzione degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno due “Huawei friendly”, al confine meridionale il Messico e al confine settentrionale il Canada. La minaccia di imporre tariffe progressive al Messico tiene conto di questa prospettiva.
Il sostegno tedesco al “Piano di sviluppo integrale” promosso per la regione dal presidente messicano López Obrador ha suscitato un profondo disagio nel governo guidato da Donald Trump. “L’America Latina è stata a lungo fuori dal nostro interesse” ha detto il Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas il 28 maggio, presentando la cosiddetta Iniziativa Latinoamericana dei Caraibi, dove si prevedono forti investimenti in settori chiave come l’energia, l’industria automobilistica e l’Internet delle cose. Il 2 maggio, lo stesso Heiko Maas in visita a Città del Messico ha sottolineato, tra le altre cose, che la Germania si opporrà a qualsiasi intervento militare in Venezuela. E se mancava qualche altra cosa per provocare disagio a Trump, il 30 maggio ad Harvard Angela Merkel ha chiesto di “abbattere i muri dell’ignoranza”, una frase che è stata considerata una sfida alla Casa Bianca. Tutto questo quadro spiega perché all’incontro bilaterale del 5 giugno tra Trump e Angela Merkel non c’è stata alcuna stretta di mano e i leader si sono perfino rifiutati di scattare una foto insieme. L’incontro è tristemente durato solo 10 minuti. In conclusione, la BMW tedesca ha inaugurato questa settimana un nuovo stabilimento automobilistico in Messico con un investimento di un miliardo di dollari.
Lo sganciamento
Quella che è diventata la “guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina” è più di una semplice guerra commerciale. In primo luogo, abbiamo da una parte la principale potenza imperialista del pianeta e dall’altra la principale fabbrica del globo. In secondo luogo, questo punto è ancora più importante, l’attuale situazione di controversia deriva da un processo molto lungo di “relazioni carnali” in cui gli Stati Uniti hanno promosso lo sviluppo capitalista in Cina, esportando il capitale in eccesso, e la Cina ha ampliato i limiti del mercato mondiale, attenuando l’impatto e la portata delle successive crisi mondiali.
Non si tratta di una semplice disputa ma di una sorta di “divorzio” (e, va notato, dei più violenti). In altre parole, la dinamica dell’attuale crisi porta innanzitutto alla rottura a catena dei contratti e degli accordi commerciali, cercando allo stesso tempo di stabilirne dei nuovi. Apre, o se vogliamo, approfondisce un periodo di sconvolgimento sociale.
Un risultato già previsto dal Partido Obrero!
Tra gli innumerevoli articoli sviluppati dal PO sulla crisi mondiale, vorrei portare come esempio un paragrafo di un contributo del 2008, preparato dal nostro compagno Pablo Rieznik, che fornisce solide basi per comprendere la crisi attuale. Scrive Rieznik: “George Soros, in un breve articolo dello scorso marzo (2008), dopo aver dipinto con tinte catastrofiche la crisi economica internazionale, ha affermato che gli indici di fallimento economico che sono caratteristici del centro del mondo capitalista non sono ancora stati osservati in Cina. E ha concluso: se tale divergenza persiste, riemergerà il protezionismo, assisteremo a gravissime turbolenze nel mercato internazionale o testualmente cose ancora peggiori”. Lo speculatore multimilionario sui mercati azionari ha poi insinuato la possibilità di una guerra planetaria come conseguenza dell’eventuale dislocazione del commercio internazionale e dei flussi di capitali. Dobbiamo ammettere che l’approccio non è affatto negativo e che fornisce un indizio per affrontare la crisi attuale con una dialettica che è assente in gran parte delle analisi sulla questione, comprese quelle di coloro che si dichiarano marxisti e perfino trotskisti. Perché indica la prospettiva della catastrofe, non nel fatto che la Cina venga devastata dalla debacle economica delle principali potenze, ma al contrario nell’eventualità che possa evitarla. L’economia mondiale è una totalità organica e un grave scompenso può liquidare il paziente. Non si tratta di isolare le sue componenti per classificarle indipendentemente l’una dall’altra, ma di valutare la sostanza degli squilibri che conferiscono alla crisi un carattere globale” (En Defensa del Marxismo Nº36, 2008).
Calciare la scacchiera
Fino ad ora abbiamo assistito ad una serie di mosse tattiche da entrambi i contendenti proprio come se stessimo assistendo a una partita a scacchi e la scacchiera fosse l’economia mondiale. Ogni giorno vi sono movimenti abili e precisi.
Allo scenario di una penetrazione in America Latina con piattaforma in Messico, dobbiamo aggiungere che l’espansione della cosiddetta Via della Seta nella nostra regione (sudamericana, ndt) segnala come la Cina si stia apprestando ad investire massicciamente in infrastrutture, energia e telecomunicazioni in paesi come Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guyana, Panama, Repubblica Dominicana e Venezuela, oltre al già menzionato Messico (Infobae, 16/6/18). Questa è una sfida lanciata “nel cortile dello stesso zio Sam”.
Abbiamo prima accennato che l’irruzione sulla scena del tandem Cina-Russia, la quale non è nuova, si è consolidata negli ultimi mesi. Il 7 giugno Putin e Xi Jinping si sono incontrati a San Pietroburgo e hanno firmato una trentina di accordi, che vanno dal commercio all’energia al “rafforzamento della stabilità strategica che comprende questioni internazionali di reciproco interesse, nonché questioni di stabilità strategica globale” (BBC, 9/6). Inoltre in questo incontro hanno concordato una politica per porre fine all’uso del dollaro come valuta dominante nel commercio mondiale, come da regola attraverso l’uso delle valute nazionali. Lo scopo dichiarato è quello di rompere una delle leve dell’egemonia americana.
Sul fronte delle telecomunicazioni, Huawei ha affrettato il rilascio del suo sistema operativo che risulta essere del 60% più veloce di Android di Google, oltre ad essere compatibile con tutte le applicazioni di Google, pertanto gli utenti non subiranno le limitazioni. L’azienda cinese ha annunciato di avere già un milione di apparecchiature di ultima generazione con questo sistema pronte per essere immesse sul mercato. L’abbandono di Windows da parte delle strutture militari di Cina e Russia si somma a quello della Corea del Sud che lo elimina direttamente da tutti gli organismi statali (The Economist, 21/5) Questo fatto, che può sembrare secondario, possiede un dettaglio che gli conferisce grande importanza: Samsung, il più grande produttore di telefoni cellulari del mondo, ha sede in Corea del Sud. La Corea del Sud, in futuro, potrebbe voler passare al sistema sviluppato dalla Cina, in modo tale che tutte le società di software “star” degli yankees si troverebbero in gravi difficoltà.
Un recente rapporto del Pentagono presentato al Congresso degli Stati Uniti (Annual Report to Congress: “Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2019”, 2/5) riconosce a pagina 112 che sono le aziende cinesi, non americane, a sviluppare la tecnologia del futuro il che costituisce una potenziale minaccia alla sicurezza americana. Si tratta del riconoscimento di aver perso la battaglia tecnologica, fondamentalmente nei confronti del 5G, e, da qui, dell’Internet delle cose e delle telecomunicazioni del futuro.
Questo spiega il cedimento degli Stati Uniti in relazione al veto posto a Huawei. La presunta deportazione della società cinese ha lasciato le imprese americane appese ad un filo, se posso utilizzare l’analogia scacchistica, proprio come la mossa di una pedina della dama che porta ad essere “mangiata”. Da un lato il gioco cinese, molto più solido, e dall’altro gli yankees che senza sviluppo di mezzi si ritrovano schiacciati sulla scacchiera. Nonostante la prospettiva guerrafondaia che si sta aprendo, alcune grandi aziende statunitensi stanno studiando il trasferimento della loro produzione dalla Cina all’India come uno dei possibili contrattacchi americani.
Una politica di aggressione militare contro la Cina
Nella società capitalista non esiste il Fair Play. La “calma millenaria” che la stampa internazionale ha attribuito ai cinesi (in presunto contrasto con la venalità di Trump) è stata cancellata con un tratto di penna non appena gli Stati Uniti hanno dichiarato che vigileranno sull’indipendenza di Taiwan. “Esortiamo gli Stati Uniti a fermare la vendita di armi a Taiwan, a tagliare le relazioni militari e ad affrontare con prudenza e in modo appropriato le questioni legate a Taiwan, al fine di evitare gravi danni alle relazioni tra Cina e Stati Uniti, così come alla pace e alla stabilità dello Stretto di Taiwan”, ha affermato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Geng Shuang in una dichiarazione forte e decisa (Xinhua, 7/6). Il governo cinese considera Taiwan una “provincia ribelle”, parte integrante, quindi, della nazione cinese. In questo contesto ci sono state recenti manifestazioni a Hong Kong contro il disegno di legge che avrebbe permesso l’estradizione di cittadini per essere poi processati in Cina, evento che ha avuto un’insolita partecipazione di massa, con circa un milione di persone per le strade (El País, 14/6). Alcuni commentatori segnalano una speciale impennata di mobilitazioni provenienti dagli Stati Uniti, interessate a destabilizzare il regime cinese, ipotesi che però non è stata dimostrata. Ciò che è del tutto evidente è l’enorme dispiegamento navale che gli Stati Uniti stanno dirottando nel Mar Cinese, dove la “settima flotta” è stata rafforzata per egemonizzare il controllo della regione e il commercio marittimo in zone considerate controverse. È in questa zona calda che, il 7 giugno, due navi da guerra, una americana e l’altra russa, si sono trovate ad appena 50 metri di distanza dallo scontro, un fatto che è stato catalogato come estremamente pericoloso dal punto di vista militare e che, se fosse accaduto, avrebbe potuto scatenare una guerra. Siamo di fronte ad una minaccia, o almeno ad una provocazione, che non è stata ancora chiarita. Non si tratta tra l’altro di un evento isolato, poiché ha diversi precedenti nella regione.
G-20
Il vertice del G20, che si terrà tra due settimane (28 e 29 giugno, ndt), sarà più che mai la messa in scena di un modello di impotenza. Gli ultimi fatti dimostrano come la strategia degli Stati Uniti (anche se con una forte opposizione interna) sia quella di sferrare un colpo devastante alla Cina in modo tale da metterla fuori combattimento. Al contrario, al di là dei protocolli di rigore, è probabile che il vertice diventi una cassa di risonanza del livello di conflitto regnante.
Dietro l’arroganza del governo americano si nasconde un imperialismo senile nel momento più fragile della sua storia dal dopoguerra. I lavoratori del mondo sono già in allerta e si mobilitano in difesa delle loro conquiste storiche, come dimostrano i milioni di hongkoneses nelle strade, lo sciopero e la lotta di massa in Sudan, lo sciopero generale e le mobilitazioni di massa in Brasile; quest’ultime in continuità e a coronamento della serie di mobilitazioni e scioperi che scuotono l’America Latina da diversi anni. Si sta aprendo la strada della tendenza all’azione indipendente delle masse in tutti i continenti.