DIETRO LE SBARRE! Le carceri e la repressione in Italia

di DC, IN, MP, ACP

La privazione della libertà personale in seguito ad una condanna, si sa, è un tema scottante. La pena viene considerata di fatto come il saldamento di un debito nei confronti della società per i reati commessi. E così succede che una moltitudine di persone venga ammassata in degli spazi chiusi e angusti, le carceri appunto, in cui passare l’intervallo di tempo della propria vita stabilito dal giudice. Le strutture italiane sono, inutile dirlo, totalmente inadeguate per i minimi livelli di dignità umana (non che negli altri Paesi le prigioni siano luoghi confortevoli!).

Allo stato attuale esistono 190 istituti carcerari che accolgono in totale 60.476 persone e di questi istituti ben 139 sono sovraffollati. Complessivamente, le carceri italiane contengono 9.948 detenuti/e in più di quelli che potrebbero legalmente accogliere, circa il 20% in più della capienza regolamentare (dati del Ministero della Giustizia, 31 maggio 2019). Le situazioni più drammatiche si registrano a Verona “Montorio” (539 detenuti contro una capienza regolamentare di soli 335 imprigionati), Firenze “Sollicciano” (790 vs 500), Palermo “Antonio Lorusso” Pagliarelli (1.398 vs 1.182), Taranto (595 vs 306), Lecce N.C. (1.029 vs 610), Opera “I C.R.” (1.299 vs 918), Roma “Raffaele Cinotti” Rebibbia N.C.1 (1.590 vs 1.164), Bologna “Rocco D’amato” (827 vs 500), Napoli “Pasquale Mandato” Secondigliano (1.462 vs 1.020) e Napoli “Giuseppe Salvia” Poggioreale (2.384 vs 1.633). Le condizioni in cui vivono i detenuti e le detenute in Italia violano i diritti umani, come riconosciuto nel 2013 perfino dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha condannato il nostro Paese proprio in merito al sovraffollamento dei suoi istituti penitenziari.

Reati e pene carcerarie

Il XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’associazione Antigone (2018) ci offre un quadro dei reati per cui i/le detenuti/e sono stati/e privati/e della libertà. Nella maggior parte dei casi si tratta di reati contro il patrimonio (24,9%), reati contro la persona (17,7%) e quelli previsti dal testo unico sugli stupefacenti (15,2%). I reati contro il patrimonio consistono in furti, estorsioni, truffe e riciclaggio, mentre i reati contro la persona prevedono aggressioni, lesioni, omicidi e abbandono di minori. Ebbene, tra gli stranieri, al contrario di quanto sostengono nella loro becera propaganda i vari Salvini, Meloni e Casapound, i reati contro la persona sono meno frequenti rispetto agli italiani, mentre lo sono di più quelli che riguardano la violazione della legge sulle sostanze stupefacenti (facile previsione vista la stupidità delle leggi italiane sulle droghe, che condannano a pene detentive anche il piccolo spaccio, e visto che stiamo parlando di soggetti costretti a sopravvivere nella più totale marginalità sociale ed economica da un sistema di sfruttamento in cui i migranti sono l’ultima ruota del carro). Per quanto riguarda i reati di sfruttamento della prostituzione, su 97 donne detenute 86 sono risultate essere straniere (e torniamo al discorso appena fatto!).

In generale, comunque, è la maggior parte dei reati ad essere connessa a problematiche di tipo economico, come l’assenza di lavoro o un magro salario. Non è certamente un caso infatti che dal 2008 (cioè dallo scoppio della crisi economica) ad oggi il numero dei/delle reclusi/e sia cresciuto di circa il 10% (da 55.057 a 60.476 incarcerati/e).

Le misure alternative di detenzione, il lavoro e l’offerta rieducativa

È la stessa Legge 26 luglio 1975 n. 354 a prevedere per i detenuti e gli internati un percorso rieducativo finalizzato al reinserimento sociale anche attraverso i contatti con il mondo esterno (art.1). Tra le diverse “misure alternative alla detenzione”: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, “Articolo 21”. In particolare, l’articolo 21 dà la possibilità ai detenuti di uscire dall’Istituto Penitenziario per poter lavorare o studiare. Per i detenuti che non hanno maturato i tempi per poter accedere al regime di art. 21, o per i quali nessuna domanda di assunzione da soggetti esterni al carcere è stata formulata, è previsto che il lavoro sia all’interno del penitenziario. I detenuti vengono definiti “lavoranti” e il loro compenso è ben più basso degli altri lavoratori: nei casi più fortunati, non supera i 500 euro. Il numero dei detenuti lavoratori è passato dai 10.902 (30,74%) del 1991 ai 18.404 (31,95%) del 2017 (dati Ministero della Giustizia), ma resta una quota minoritaria della popolazione carceraria. La quasi totalità dei “lavoranti” (86,52%) è alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Il lavoro nelle carceri avviene per turnazione, riducendo le ore dei lavori individuali a brevi periodi o a poche ore settimanali. Tra le mansioni svolte troviamo i servizi di istituto (pulizia, distribuzione vitto, segreteria, scrittura di reclami e documenti per altri detenuti, 82% dei “lavoranti”), le lavorazioni (4,1%), le colonie agricole (1,35%), la manutenzione ordinaria delle carceri (lavori di piccola carpenteria, idraulica o elettrotecnica, 7,2%) e servizi extra-murari (5,1%.). Il 13,48% lavora invece per soggetti diversi dall’Amministrazione Penitenziaria, e cioè per imprese private ed enti pubblici, per cui sono previsti sgravi fiscali importanti. I corsi di formazione sono estremamente scarsi, infatti coinvolgono appena il 3,8% dei/delle detenuti/e, e spesso non rilasciano certificazioni.

Difficilmente, così, una volta usciti dal carcere i detenuti riescono ad intraprendere un’efficace carriera lavorativa, soprattutto se sprovvisti di una rete sociale che riesca a far trovare loro un impiego.

Essere madri dietro le sbarre

Le detenute incinte o con figli che hanno fino a 6 anni sono accolte nelle strutture penitenziarie ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri). Questa tipologia di penitenziario nasce con la legge n. 62 del 21 aprile 2011 che ha permesso alle detenute di mantenere i rapporti con i propri figli anche durante la detenzione. La legge n.354/1975 prevedeva che i bambini stessero con le proprie madri fino all’età di 3 anni; con la nuova legge (n.62/2011) l’età si è alzata a 6 anni. Inoltre, questa legge concede la possibilità alle donne che non hanno un posto in cui scontare la detenzione domiciliare, di alloggiare presso una Casa Famiglia insieme ai propri figli fino a 10 anni di età, questo però solo dopo l’espiazione di almeno 1/3 della pena o dopo almeno 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo. Se il bambino ha più di 6 anni e la madre non ha finito di scontare la sua pena, verrà assegnato ad una famiglia affidataria.

Attualmente gli Istituti penitenziari che in Italia accolgono detenute con figli sono 5: Milano “San Vittore”, Torino “Lorusso e Cutugno”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro (Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica). Negli altri 15 penitenziari italiani in cui è prevista una sezione femminile sono presenti unicamente degli asili nido.

Un cane che si morde la coda

L’aumento del numero degli incarcerati e delle incarcerate dal 2008 (anno dello scoppio della crisi economica, non certo una coincidenza) e l’aumento esponenziale del debito pubblico italiano, con i conseguenti tagli alla spesa pubblica, hanno contribuito a determinare l’attuale condizione di degrado e sovraffollamento dei penitenziari. La maggior parte dei detenuti ha commesso reati contro il patrimonio (furti, estorsioni, truffe, riciclaggio), il che riflette perfettamente quanto un sistema economico basato sull’accumulazione privata del capitale, lo sfruttamento salariale e la disoccupazione porti le persone a cercare metodi alternativi di sussistenza. Cos’altro è in grado di offrire questo tipo di società alle masse popolari, al proletariato, autoctono e migrante, per consentire loro di sopravvivere?

Durante la pena, i/le detenuti/e subiscono un’ulteriore forma di sfruttamento (permettendo allo Stato di risparmiare sulla spesa pubblica), lavorando per il mantenimento delle strutture detentive e svolgendo lavori amministrativi per le stesse con una retribuzione nettamente inferiore a quella dei normali lavoratori, dipendenti ad esempio di ditte esterne.

Il sistema capitalistico propone, quindi, pene detentive e sistemi rieducativi totalmente in linea con le sue contraddizioni intrinseche: crea le condizioni sociali perché la miseria porti grandi fasce di sottoproletariato a delinquere; costringe i detenuti e le detenute a vivere la pena commissionata nelle condizioni drammatiche in cui versano strutturalmente le carceri; una volta espiata la pena il reinserimento sociale resta completamente sulle spalle dei singoli soggetti perché gli istituti detentivi, tranne rarissime eccezioni, non forniscono alcun percorso reale in tal senso. I detenuti e le detenute sono spesso bersaglio dei politicanti borghesi e dei loro mezzi di informazione che creano nell’opinione pubblica un’idea semplicistica di singoli individui che sbagliano, da colpevolizzare in maniera assoluta. Come se non esistesse in tale sistema economico la disoccupazione strutturale. Come se tutti i lavori fornissero salari che permettano di vivere dignitosamente e di crescere dei figli. A tale lettura, strumentale alla sopravvivenza di questo sistema di oppressione, è nostro dovere reagire, è nostro dovere opporci!

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