A proposito della famiglia (in)naturale

di IN, DC

Il “Congresso della Famiglia” che ha avuto luogo a Verona dal 29 al 31 marzo ha affermato ancora una volta la necessità che abbiamo, in quanto donne e minoranze sessuali oppresse, di difenderci dagli attacchi di chi ci vuole al servizio della società capitalista e utilizza le sovrastrutture disponibili (religione, Stato, ideologia) per forzarci in quella direzione. “Dio, Patria e Famiglia” è ancora il motto ripetuto nelle crociate del XXI secolo, il concetto di “famiglia tradizionale” lo scudo dietro il quale si nasconde il templare contemporaneo, fedele cavaliere che combatte l’avanzata di pericolosi rapporti relazionali più liberi e la diffusione della spaventosa “teoria gender”.

Nell’immaginario del ciarpame conservatore, ultraclericale, neofascista, e ovviamente classista riunito a Verona, la famiglia – definita naturale – ha una precisa struttura: un uomo ed una donna, uniti dal sacro vincolo del matrimonio, con un congruo numero di figli. L’utilizzo dell’aggettivo “naturale” di per sé genera una chiara demarcazione: questo tipo di istituzione è l’unica riconosciuta e possibile. Tutto il resto diventa inconcepibile e, per questo motivo, da eliminare. All’interno della famiglia vi è una netta distinzione tra i due coniugi: (al netto di un maggior inserimento della popolazione femminile nel mercato del lavoro) l’uomo produce e la donna riproduce (intendendo con ciò non solo l’atto del parto ma anche il lavoro di cura della prole nel lungo periodo) e questa cesura sarebbe giustificata dalla diversità biologica dei due sessi (quando invece le sue radici sono di tipo storico e fondate sui mutamenti nella struttura economica della società).

Tale processo di legittimazione del modello di famiglia attraverso la nozione di “natura” e paradossalmente giustificato in parallelo dalla (falsa) scienza, è lo stesso che ha permesso che il capitalismo venisse riconosciuto come l’unico sistema di produzione possibile. In “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” (1884), Friedrich Engels, approfondendo il lavoro dell’etnologo Lewis H. Morgan, compie un dettagliato excursus sull’evoluzione dell’istituzione familiare per arrivare alla conclusione che il passaggio tra gli stadi evolutivi della società (allora classificati in stadio selvaggio – barbarie – civiltà) ha condizionato anche la struttura della famiglia: l’uomo è diventato alla fine padrone e gestore della proprietà privata, mentre la donna ha perso via via la sua importanza sociale, perdendo progressivamente la propria autonomia, sia dal punto di vista economico che (di conseguenza) giuridico. La famiglia diventa così lo strumento attraverso cui tutelare e tramandare la proprietà privata. La famiglia “tradizionale” è necessaria per mantenere intatto lo status quo della società capitalista e tutto ciò che potrebbe minacciare il suo equilibrio è messo al bando. Per questo il nemico da combattere, per i paladini della famiglia, viene ad essere l’acquisizione dei diritti economici, e quindi civili e sociali, delle donne e anche delle persone LGBTIA.

Perché vogliono che facciamo più figli

Per il capitalismo la donna è, quindi, al contempo, forza lavoro e mezzo di riproduzione della forza lavoro. L’anno scorso (marzo 2018) veniva pubblicato un “Occasional Paper” della Banca d’Italia dal titolo “Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di storia italiana”. L’articolo si concentrava sul legame esistente tra crescita economica (crescita del PIL e del PIL pro capite) e il tasso di fecondità delle donne, ovvero il numero medio di figli per donna in età fertile (vedi specchietto informativo), evidenziando come l’abbassamento di quest’ultimo stia avendo un impatto negativo sulla crescita economica. In pratica, le donne fanno sempre meno figli rispetto al passato e riproducono quindi poca forza lavoro: nel 2017 il numero medio di figli per donna era pari a 1,32. Si è arrivati dunque ad una situazione per cui in Italia le persone anziane sono oggi più di quelle giovani. Ciò significa che la popolazione in età lavorativa – e quindi la forza lavoro del capitalismo italiano – è in forte calo e chiaramente questo preoccupa per gli scenari futuri le imprese, le banche, lo Stato e perfino l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS). Quest’ultimo è da tempo in stato di allarme in quanto il suo funzionamento è basato sull’utilizzo dei contributi versati dai lavoratori per pagare i pensionati e un forte squilibrio a favore dei secondi rispetto ai primi determina gravi danni alle proprie casse. Insomma, non è un caso che negli ultimi anni siano state introdotte tutta una serie di agevolazioni fiscali e assegni note come “Bonus figli” a sostegno dei genitori che danno alla luce nuove forze produttive. Un altro dato che preoccupa la classe dominante è il calo dei matrimoni tra i giovani adulti (25-34 anni): dal 1991 al 2018 la quota di uomini sposati è scesa dal 51,5% al 19,1%, mentre quella delle donne dal 69,5% al 34,3%. Tale “crisi” dell’istituzione sociale della “famiglia unita nel vincolo del matrimonio” costituirebbe un pericolo perché metterebbe in discussione quel modello base di organizzazione degli affetti funzionale alla riproduzione della forza lavoro.

Gli attacchi alle nostre rivendicazioni di libertà sessuale e relazionale intendono dunque rafforzare il controllo sociale sulla donna. Da una parte, si afferma con forza la sacralità della famiglia e la necessità che la donna riproduca la forza lavoro italiana, con una dinamica malata che vuole uno sfruttamento estremo della popolazione maschile per la produzione e di quella femminile per la riproduzione. Dall’altra, il capitale sta comunque approfittando della situazione per preparare un’ulteriore controffensiva ai diritti dei lavoratori. Il “paper” della Banca d’Italia su citato, ad esempio, propone come soluzione al basso tasso di natalità, e quindi ad una eventuale carenza di forza lavoro, uno sfruttamento ancora maggiore della classe lavoratrice, allungando l’età lavorativa fino ai 70 anni e includendo sì maggiormente la popolazione femminile nel mercato del lavoro ma senza creare le condizioni per cui ciò avvenga agevolmente a livello di massa, senza cioè minimamente porsi il problema di socializzare il lavoro di cura a cui le donne della classe lavoratrice sono quotidianamente soggette, ovviamente.

A tutto ciò il movimento delle donne e soggetti LGBTIA, in Italia come nel resto del mondo, deve opporre una controffensiva tanto radicale quanto radicale è l’attacco che loro subiscono, smascherando le radici soprattutto economiche di quest’ultimo. È necessario a tal fine costruire un soggetto politico della classe operaia che combatta il capitalismo su tutti i fronti facendo leva sull’alleanza tra tutti i settori oppressi della società.

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