L’Italia sull’orlo del fallimento – La necessità di una risposta operaia

Editoriale tratto dal Periodico politico La Prospettiva Operaia n.1/2019

A dieci anni dallo scoppio della crisi mondiale, l’Italia mostra tutte le cicatrici di un’economia distrutta e di una società lacerata. Il sistema bancario è virtualmente
fallito; l’industria, a causa della depressione della domanda, è in recessione; il debito pubblico, il terzo più alto al mondo, è un fardello che ha costretto tutti i governi degli ultimi 10 anni a colpire la spesa sociale (scuola, sanità, trasporto pubblico, opere infrastrutturali, ecc..) per poter pagare gli interessi sul debito sempre più alti (circa 150 miliardi l’anno tra lo Stato centrale e gli enti locali). Il debito pubblico, e il suo costo per interessi, anche a causa della fine degli aiuti della BCE tramite il #QuantitativeEasing (l’acquisto di titoli di Stato ad un tasso di interesse inferiore rispetto ai privati) non può che continuare ad aumentare. L’Italia si trova in una spirale perversa che ha la sua fine in una probabilissima bancarotta, la quale trascinerebbe con sé il resto dell’economia europea e mondiale.

In questo contesto di crisi, tutti i governi, di qualsiasi colore politico, sono regolarmente intervenuti per salvare banchieri e padroni a scapito di lavoratori, pensionati, studenti, utenti dei servizi pubblici. È stato così col centrosinistra e col centrodestra, con Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, ed oggi col governo di Salvini e Di Maio. Le politiche antisociali degli ultimi 10 anni, e in particolare del nuovo governo “sovranista”, dimostrano che non esistono governi amici dei lavoratori. I partiti usciti vincitori dalle ultime elezioni, Movimento 5 Stelle e Lega, ereditano la patata bollente della gestione delle politiche di sacrifici imposte dai governi precedenti e della troika UE-BCE-FMI. Riduzione della spesa sociale per poter pagare gli interessi sul debito; attacco ai lavoratori statali; annuncio di privatizzazioni e dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico per 18 miliardi di euro. Il governo M5S-Lega, al di là di qualunque intenzione e di qualunque propaganda, non ha alcuna possibilità di realizzare né le sue promesse elettorali né il suo “contratto di governo”. La continuità sostanziale tra l’attuale governo e i precedenti trova la sua massima espressione nella questione del salvataggio delle banche: il governo giallo-verde si è impegnato a salvare banca Carige con un decreto fotocopia di quello del 2016 (governo Gentiloni) col quale lo Stato intervenne (coi soldi dei lavoratori) per comprare Monte dei Paschi.

Le vicende relative alle misure più simboliche sono la testimonianza del disastro del governo. Il reddito di cittadinanza si caratterizza come uno strumento di irreggimentazione semischiavistico ai danni dei disoccupati poiché li costringerà ad accettare per poche centinaia di euro lavori a distanza di centinaia di chilometri, e per di più con la beffa di non poterlo utilizzare per le famose spese “immorali”. Non c’è nessuna abolizione della riforma Fornero, ma solo la possibilità, solo per una breve finestra temporale, per chi ha i requisiti, di andare in pensione con un’enorme decurtazione della stessa. Di abolizione del Jobs Act e delle precedenti leggi di precarizzazione del lavoro neanche a parlarne. Il governo M5S-Lega non ha alcuna possibilità di tirare il Paese fuori dalla crisi.

La crisi italiana è solo un episodio della crisi capitalista mondiale. È morta la cosiddetta globalizzazione, che avrebbe dovuto superare le contraddizioni tra Stati, e che in realtà le ha acuite al punto tale che l’Unione Europea è sull’orlo della disintegrazione e Trump ha imposto al mondo una guerra commerciale e monetaria, la quale è solo l’inizio della guerra vera. Il riarmo degli USA, il progetto di costruzione di un esercito europeo (nel contesto di un rilancio del progetto imperialista europeo a guida franco-tedesca), la corsa alle armi di potenze grandi e piccole, sono tutti segnali del fatto che il capitalismo si è incamminato verso una nuova guerra mondiale. Il capitalismo non conosce altra soluzione alla propria crisi che non sia la guerra imperialista, la distruzione massiccia di tecnologia e persone in eccesso. La crisi italiana dimostra anche, nel contesto generale del declino del capitalismo, il declino di quello italiano. Priva di materie prime, con una demografia limitata e con una parte del territorio economicamente depressa, ma soprattutto con una forte dipendenza dal mercato unico, un’Italia “capitalista”, “sovrana”, non ha alcuna possibilità di resistere al di fuori del mercato unico europeo e della sua moneta. In questo contesto di crisi, la borghesia del nord, con i vari processi di autonomia regionale, acuisce la tendenza dello Stato nazionale alla sua disgregazione.

Il disastro economico produce a sua volta una disintegrazione della società che trova la sua manifestazione più acuta nello strisciante razzismo, promosso dal governo e strumento di divisione tra lavoratori italiani e stranieri, nonché in un aumento dell’omofobia e degli attacchi ai diritti delle donne. La becera campagna d’odio promossa dal governo, soprattutto in relazione alla questione dell’accoglienza nei confronti dei rifugiati, è la testimonianza non solo del suo carattere reazionario, ma anche del nervosismo che serpeggia tra le sue fila, a causa dell’impossibilità di realizzare anche la più timida inversione di rotta, con la necessità di costruire una spessa coltre di nebbia che impedisca di vedere il fallimento totale del governo.

Al fallimento generale del capitalismo fa eco il fallimento della sinistra italiana. La vittoria elettorale dei “sovranisti” e la nascita del governo giallo-verde è la prova più lampante di questo fallimento: se la crisi dei partiti tradizionali della borghesia ha prodotto il Governo Salvini-Di Maio-Conte, e non una crescita della sinistra, è perché la sinistra italiana era ed è totalmente impreparata a questa crisi politica e sociale. Da una parte la sinistra riformista, come Rifondazione Comunista, si è suicidata andando al governo con Prodi e rendendosi responsabile delle sue politiche di rapina nei confronti dei lavoratori; dall’altra la cosiddetta sinistra rivoluzionaria (PCL ed altri partiti che si definiscono “trotskisti”) non ha potuto sfruttare la crisi del riformismo perché per 20 anni ha praticato il “codismo” nei confronti delle sue direzioni, salvo abbozzare qualche critica letteraria, senza avere un proprio intervento politico indipendente. La sinistra “di classe”, “rivoluzionaria”, “anticapitalista”, che voleva costruire un’alternativa a quella di governo, sperando che la “liberazione” dello spazio prima occupato all’opposizione potesse favorirla, è rimasta intrappolata nella palude dell’elettoralismo e della testimonianza. La sinistra “di classe”senza la classe, non solo nega la profondità della crisi capitalista e il carattere terminale di un modo di produzione giunto ormai al suo stadio senile, ma soprattutto, rifugiandosi dietro l’arretramento dei lavoratori e della loro coscienza, si sottrae al ruolo, che invece dovrebbe assumere, di propulsore delle lotte. La lotta non può essere attesa, occorre che vi sia uno stimolo, un impulso, affinché le mille piccole lotte (e a volte anche non piccole, come nel caso dei lavoratori della logistica o dei pastori sardi) trovino uno sbocco unitario, una ricomposizione su un terreno di rivendicazioni comuni che permetta loro di fare un salto di qualità e comprendere la questione più importante in assoluto: la questione del potere politico. Occorre spiegare ai lavoratori che quella capitalista è una società catastrofica ma occorre che prima lo capisca la sinistra “rivoluzionaria”.

Potere al Popolo, che nasce dalle ceneri di questa sinistra morta, ripete tragicamente i vizi che l’hanno portata alla morte. La sua disponibilità a subordinarsi a De Magistris in cambio di qualche (improbabile) poltrona è significativa. Oggi si capitola a un ex-magistrato che governa Napoli reprimendo i lavoratori in lotta e destinando risorse comunali ai quartieri borghesi (lasciando le periferie allo scatafascio), domani si andrà al governo con la borghesia condannando per l’ennesima volta al suicidio la sinistra italiana.

Allo stesso tempo la CGIL è totalmente paralizzata: la sua burocrazia cerca disperatamente un’impossibile concertazione col governo di turno, ripetutamente rifiutata nella consapevolezza di governi e padroni che qualsiasi attacco al mondo del lavoro in ogni caso non riceverebbe una risposta adeguata dalle organizzazioni del movimento operaio. Questa inadeguatezza tocca anche i sindacati di base, che invece di promuovere un fronte unico di lotta sono ingabbiati dal settarismo (e in alcuni casi dall’opportunismo) di piccoli apparati. Il fatto che Potere al Popolo si ponga come unico obbiettivo sindacale quello di rafforzare l’apparato dell’USB mentre Sinistra Anticapitalista, SCR e PCL quello di criticare ai congressi CGIL la burocrazia di Camusso e
Landini, dimostra che è necessaria una nuova sinistra politica e sindacale, la quale promuova una tendenza intersindacale combattiva che superi i piccoli apparati dei sindacati di base e i “politicanti” che vivono di congressi CGIL.

Nonostante la morte cerebrale della sinistra, italiana ed europea, c’è un risveglio. Le rivolte popolari e studentesche in Albania e Armenia, la crescente conflittualità operaia in Ungheria, le lotte delle donne in Spagna e Polonia, ma soprattutto la lotta dei gilet gialli in Francia, sono il segnale che una nuova era di ascesa delle lotte è vicina, anche in
Italia. Lo si vede con la lotta dei pastori e degli agricoltori meridionali, e con il ritorno degli scioperi alla FCA (FIAT) di Pomigliano d’Arco, lì dove Marchionne aveva piegato le
ultime resistenze.

È fondamentale che i lavoratori e le lavoratrici, a partire dalle piccole ma crescenti e diffuse lotte presenti nella società, costruiscano un’alternativa politica operaia tanto ai “sovranisti” quanto agli “europeisti”. Occorre un partito. E non un partito qualunque. Un partito dei lavoratori, indipendente dai padroni e dai loro partiti, che abbia al centro del suo programma l’obiettivo del governo dei lavoratori. Prospettiva Operaia vuole costruire questo partito. È fondamentale che la classe operaia e i militanti che vogliono ricostruire una sinistra di classe abbiano, al centro del proprio programma, questa prospettiva di potere dei lavoratori poiché l’accelerazione della crisi economica porrà molto presto all’ordine del giorno la questione più importante in assoluto: quale classe sociale comanda nella società. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può salvare la società dalla sua crisi sociale ed economica ed evitare la guerra.

È necessario che i lavoratori coscienti lottino, nella prospettiva del governo dei lavoratori, per l’annullamento del debito pubblico usurario verso speculatori, banchieri, capitalisti e per la nazionalizzazione delle banche e delle compagnie assicurative, senza alcun indennizzo eccetto che per i piccoli risparmiatori, sotto il controllo democratico dei
lavoratori e dei cittadini. Rivendichiamo la rottura unilaterale di tutti i trattati europei e l’uscita dell’Italia dall’UE, alla quale contrapponiamo gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, cioè governi dei lavoratori in tutt’Europa. Allo stesso tempo, è necessaria una campagna unitaria: contro i venti di guerra e il riarmo delle grandi potenze; per la nazionalizzazione delle industrie militari, senza alcun indennizzo, e per la loro riconversione, sotto il controllo operaio e popolare, in industrie ad uso civile; per l’uscita dell’Italia dalla NATO (con la chiusura delle sue basi militari) e per il rifiuto di aderire al blocco imperialista europeo. Solo un partito che lotti per un governo dei lavoratori, che riorganizzi l’economia sulla base delle esigenze della maggioranza lavoratrice della società, può combattere e sconfiggere la dittatura dei padroni e dei banchieri, e salvare l’umanità dalla catastrofe bellica. Prospettiva Operaia nasce per conseguire questo obiettivo.

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