LA CRISI CAPITALISTA MONDIALE E LA GUERRA IMPERIALISTA. La necessità di una “guerra alla guerra”

Un decennio e più di crisi

La crisi economica che attanaglia il mondo da oltre un decennio, la Terza Grande Depressione, è la più grande crisi capitalista della storia. Nessun economista si azzarda nel prospettare quando e come la crisi possa finire. Né ci sono riuscite le misure straordinarie prese dai governi e dalle banche centrali dopo la bancarotta della Lehman Brothers, con i fiumi di liquidità immessi nel sistema finanziario e con costi giganteschi fatti pagare alle masse popolari.
Al contrario, tali misure hanno prodotto le condizioni sociali, economiche e politiche per nuove esplosioni. È una crisi che investe non solo l’economia mondiale ma tutto il sistema di istituzioni nato sul finire della Seconda guerra mondiale e ristrutturatosi con la fine degli accordi di Bretton Woods, alla metà degli ’70. Iniziata proprio in quegli anni, la crisi ha assunto una dimensione colossale con la bancarotta del 2007/8, espressione esplosiva di una gigantesca crisi di sovrapproduzione, causata dallo straordinario livello raggiunto dalle forze produttive, ormai giunte alla fine di un lungo periodo di esaurimento. A partire dagli USA, centro di sviluppo tecnologico mondiale, la crisi si è rapidamente trasferita al resto dei Paesi imperialisti e ai Paesi cosiddetti emergenti. Si assiste al declino, e addirittura alla scomparsa dagli organi di stampa, del gruppo di Paesi chiamato BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). La crisi capitalista ha messo a nudo la dipendenza delle loro fragili economie dalle potenze imperialiste e la posizione semiperiferica, e in definitiva subordinata, che occupano nella divisione mondiale del lavoro. La saturazione dei mercati e il crollo dei consumi hanno fatto collassare la domanda di materie prime e di forza lavoro su cui si fonda il loro modello economico. Nessuna borghesia di queste potenze regionali ha la possibilità di fare un salto di qualità sul terreno internazionale che le permetta di competere frontalmente con l’imperialismo USA, il cui declino è un riflesso di quello più generale del modo di produzione capitalista.

L’incapacità del sistema capitalistico di trovare un’uscita dalla crisi dimostra il suo avanzato declino storico e il suo impasse strategico dopo il fallimento sia del keynesismo nei primi anni ’70 sia del neoliberismo nel 2007-2008. Si intensifica lo scivolamento verso la barbarie ma anche la spinta delle masse povere verso la rivoluzione. La crisi del capitalismo globale sta disintegrando il tessuto della società, immergendo il grosso dell’umanità nella barbarie: una crisi con milioni di disoccupati e precari; un’inarrestabile ondata di profughi disperati dall’Africa e dal Medioriente, alle porte di quei Paesi imperialisti che in primo luogo hanno prodotto la loro miseria; crisi dei regimi, decadenza delle assemblee parlamentari e tendenza al bonapartismo, collasso dei principali partiti della borghesia, ascesa dell’estrema destra e del fascismo, del razzismo, della xenofobia, dell’islamofobia e dell’antisemitismo in Europa e in America e dell’islamismo reazionario in Medio Oriente e in Africa; interventi militari imperialisti o guerre per procura in Medio Oriente, Asia, Africa, nelle zone di confine orientali dell’Europa, con il confronto tra la NATO e Stati Uniti con Russia e Cina che minaccia di espandere la guerra imperialista a livello internazionale.

Queste ultime, lungi dal volere e dal poter affrontare frontalmente gli USA, pur di evitare il conflitto, sono disposte ad aprire ulteriormente le rispettive economie agli investimenti esteri, sia pure contraddittoriamente, attraverso privatizzazioni e liberalizzazioni. Tuttavia, nessuna concessione sul terreno commerciale può risollevare l’economia capitalista mondiale dalla caduta tendenziale del saggio di profitto e dalla saturazione dei mercati, inevitabile prodotto della sovrapproduzione capitalista. Il tentativo da parte di Russia e Cina di cercare un compromesso non gli permetterà di evitare lo scontro commerciale e militare con gli USA, che acquisirà caratteristiche inedite poiché per la prima volta gli USA si trovano di fronte due potenze nucleari. Dopo un primo anno di presidenza “populista”, Donald Trump, pressato dai grandi gruppi finanziari e industriali, si riallinea alle necessità dell’establishment USA e del Pentagono, prepara il Paese al riarmo e marcia verso la guerra imperialista e la ricolonizzazione di Russia e Cina. L’unico rimedio che il capitalismo conosce alle sue crisi è la guerra imperialista e la distruzione su scala mondiale di forze produttive in eccesso, compresa la forza-lavoro, il che vuol dire la vita di decine o centinaia di milioni di uomini e di donne (in un contesto di mostruoso accrescimento delle capacità distruttive delle armi moderne). Poiché la guerra imperialista è il risultato della crisi del capitalismo imperialista, giunto alla sua fase suprema, qualunque analisi sulla guerra, nell’ottica di una lotta mortale della classe operaia contro tale guerra, esige una analisi sulla decomposizione mondiale del capitalismo e delle relazioni internazionali.

Gli USA, centro della crisi mondiale

La bancarotta capitalista ha prodotto, soprattutto negli USA, un enorme ripiegamento sullo Stato-nazione, adoperato prima come strumento di soccorso alle banche e alle industrie fallite (sotto le presidenze Bush jr e Obama) e poi come strumento delle guerre commerciali, monetarie e in definitiva militari. La bancarotta ha ricordato agli Stati imperialisti che il loro primo obbligo è quello di salvare i capitalisti dei propri Paesi dalla bancarotta. Questo negli Stati Uniti si manifesta con una rottura totale delle relazioni internazionali consolidatesi a partire dalla Seconda guerra mondiale, che nel suo complesso esaspera le contraddizioni dell’imperialismo e le convulsioni del sistema di alleanze tra potenze imperialiste.

La presidenza di Donald Trump, risultato delle elezioni col più alto tasso di astensione degli ultimi venti anni e con un vincitore che ha ottenuto quasi tre milioni di voti in meno rispetto alla sfidante (Hillary Clinton), rappresenta il tentativo da parte di un pezzo dell’imperialismo USA di uscire dall’impasse di Obama scatenando una guerra commerciale contro Unione Europea, Russia, Cina e allineare alla sua politica gli alleati imperialisti (soprattutto l’Europa).
La svalutazione del dollaro, annunciata al Forum economico mondiale di Davos (gennaio 2018) e concretizzata nei mesi successivi, ha subito provocato un crollo dei mercati azionari. Il presidente della BCE Mario Draghi denunciò immediatamente che l’applicazione di tale misura rappresentava una minaccia per la “ripresa” dell’Europa, tanto più nel contesto della fine del Quantitative Easing. Ma l’aggressione nei confronti dell’Europa trova il suo apice nel ricatto di Trump al governo del Regno Unito, a cui chiede apertamente di rigettare l’accordo con l’UE per una Brexit negoziata in cambio di un accordo commerciale con gli USA. All’alleato storico dell’imperialismo USA in Europa si chiede di contribuire alla distruzione dell’Unione Europea alla quale formalmente accora appartiene. Ma il conflitto con l’Europa assume un carattere ancora più aspro sulla questione militare, lì dove Trump osteggia con veemenza la prospettiva franco-tedesca di rilancio del progetto unitario europeo con un conseguente ed inevitabile disimpegno dalla NATO.

Nel conflitto con Russia e Cina, l’obiettivo della guerra commerciale di Trump è ottenere
l’accesso alle immense materie prime della Russia, prevalentemente sotto il controllo statale, e un’apertura maggiore dell’economia cinese, anch’essa prevalentemente controllata dallo Stato.
Questa politica ha un carattere contraddittorio poiché l’aggressione a entrambi i Paesi ha
l’effetto di rafforzare la loro alleanza, come dimostrano le recenti esercitazioni militari comuni. Il protezionismo, il nazionalismo economico e le politiche del “prima l’America” di Trump altro non sono che l’ultimo stadio di un esaurimento della cosiddetta globalizzazione che esplode con la crisi globale e dà libero sfogo alla tendenza alla depressione economica internazionale, per poi generare un’offensiva commerciale, e in seguito militare, su scala mondiale allo scopo di combattere il declino dell’insieme del sistema imperialista. La profondità di questa crisi è dimostrata dalla divisione nel seno delle classi dominanti americane.
La stessa Sylicon Valley, che pure all’inizio della presidenza Trump sembrava essere all’opposizione, soprattutto sulla politica migratoria, è divisa dalla guerra commerciale. Apple ha interesse a conservare lo status quo poiché gestisce in maniera completa la produzione dei suoi dispositivi e non incontra ostacoli di sorta ai suoi affari. Facebook e Google invece vedono fortissimi limitazioni alla propria presenza sul mercato cinese. Proprio il settore elettronico-informatico è teatro di uno dei capitoli più aspri della guerra commerciale contro la Cina. La guerra di Trump ai giganti elettronici cinesi ZTE e Huawei, descritti come nemici della sicurezza nazionale americana e accusati di furto di proprietà intellettuale, con la richiesta ai paesi alleati di allinearsi a tale “cordone sanitario”, si inscrive nel tentativo di ostacolare la politica “China 2025” intrapresa da XI Jinping che ha come obiettivo l’indipendenza tecnologica del sistema industriale cinese. Tuttavia, tale aggressione presenta enormi contraddizioni poiché la Cina ad oggi è il più importante produttore di semiconduttori e dispositivi elettronici al mondo ed è impossibile espellerla dal mercato mondiale.

L’integrazione capitalista mondiale ha raggiunto un livello tale da non poter essere smantellata da nessun presunto “protezionismo”. La vicenda della fine del NAFTA a tal proposito è estremamente illuminante. Il nuovo accordo col quale Stati uniti, Canada e Messico hanno soppiantato il NAFTA prevede secondo molti aspetti un’integrazione ancora maggiore, dimostrando così il carattere asfittico per le forze produttive degli Stati-nazione.
L’imperialismo americano nella sua guerra commerciale contro la Cina necessita della manodopera messicana e quantomeno di una catena produttiva sulla scala dell’intero Nordamerica. Tanto più, se pensasse di sostituire le grandi produzioni cinesi, che godono di un grande uso di manodopera a basso costo, con la superiore automazione della propria industria, non farebbe altro che piombare ancora di più nel burrone della caduta del saggio di profitto.

L’inevitabile sbocco bellico della crisi capitalista trova conferma nella strategia di difesa
nazionale degli USA, con il passaggio da operazioni su piccola scala, come la contro-insurrezione, a quelle inerenti un potenziale combattimento con un rivale come la Russia o la Cina. Il “pacifismo” elettorale di Trump lascia spazio al riarmo degli USA, anche nucleare, come dimostrato dall’abbandono del trattato “INF” sui missili intermedi, e al sostegno armato a cani da guardia regionali, come l’Arabia Saudita e Israele.

Gli USA, essendo il centro dell’economia mondiale, continuano ad essere indiscutibilmente la più grande potenza militare al mondo. Con un budget militare di 647 miliardi di dollari, contro i 151 della Cina e i 47 della Russia, gli USA occupano una posizione irraggiungibile. La Marina Statunitense dispone di 20 portaerei (comprese le portaeromobili e le portaelicotteri), più di quante ne possiedano Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Italia e India insieme. Questo permette agli USA di avere il controllo pressoché completo degli oceani e di proiettare la propria insuperabile forza aerea in tutto il mondo (da soli gli USA hanno più aerei da combattimento di Cina e Russia insieme). L’imperialismo americano non mancherà di far valere tutta la propria superiorità militare nel portare a termine la restaurazione capitalista in Russia e Cina sino alla loro colonizzazione.

La restaurazione capitalista: un processo non terminato

La ragione per la quale la crisi economica degli anni ’70 non trovò sfogo in una guerra consiste essenzialmente nel fatto che l’URSS e la Cina hanno dato vita a processi di apertura delle proprie economie all’imperialismo in crisi. L’URSS, con l’ascesa di Gorbaciov, in seguito al collasso economico causato dall’insostenibile corsa alle armi della guerra fredda in era brezneviana. La Cina di Deng Xiaoping, in seguito al fallimento del “grande balzo in avanti” maoista. Il collasso generale delle dittature “sul” proletariato (e non delle dittature “del” proletariato) spinsero le masse a contestare il dominio burocratico sull’economia e sulla politica. Le burocrazie dell’ex URSS (e del Comecon) e della Cina trovarono nell’imperialismo e nella restaurazione capitalista un sostegno di fronte al grande ciclo di mobilitazioni operaie e di crisi rivoluzionarie dei decenni successivi al secondo dopoguerra. Il prezzo che la burocrazia sovietica dovette pagare è stato l’annessione all’UE di quasi tutta l’Europa Centrale, balcanica e baltica, Paesi ridotti alla mercé delle potenze imperialiste europee, e in particolar modo dell’imperialismo tedesco. L’imperialismo, nel caso specifico della restaurazione capitalista nell’URSS, non ha trovato l’arretratezza ottocentesca dell’impero zarista, ma un paese industrializzato (con un enorme squilibrio tra i vari rami dell’industria e la supremazia dell’industria pesante-militare a causa del monopolio burocratico nell’allocazione delle risorse), e ciò che ha permesso agli imperialisti di adoperare la caduta dell’URSS a proprio vantaggio è stata non solo la dissoluzione controllata delle forze armate ma soprattutto la distruzione di forze produttive su scala gigantesca con l’integrazione della burocrazia sovietica, e dello spazio economico sovietico, nell’economia mondiale. Tutto ciò, anziché alleviare la crisi dell’imperialismo, ha finito per acuirla, fino all’esplosione del 2008, e per inasprire le contraddizioni inter imperialiste. Questo processo di restaurazione capitalista nell’ex URSS e in Cina, lungi dall’essere terminato, ha rilanciato gli investimenti globali (con un gigantesco aumento del capitale costante), vedendo precipitare velocemente il saggio di profitto e finendo così per ampliare la crisi del capitalismo su scala mondiale. Il fallimento dell’integrazione “pacifica” delle ex economie nazionalizzate nell’economia capitalista mondiale in crisi apre la strada alla guerra per la loro ricolonizzazione. In caso di guerra imperialista contro la Russia e la Cina, o più probabilmente contro una delle due, i rivoluzionari si devono battere per una disfatta completa dell’imperialismo e al tempo stesso per l’indipendenza della classe operaia russa e cinese dalle burocrazie restauratrici e dalle borghesie nazionali cresciute sotto di esse.

Russia, ex URSS ed ex COMECON

Ventisette anni dopo la formale dissoluzione dell’Urss, la repubblica più importante della
vecchia federazione, la Russia, come correttamente previsto da Trotsky, è stata ridotta dal processo di restaurazione capitalista al ruolo di semicolonia, fornitore di materie prime ai Paesi imperialisti, ed in quanto tale fortemente dipendente dai consumi di questi Paesi. L’abissale distacco con il livello tecnologico dei Paesi imperialisti e il carattere parassitario degli oligarchi che compongono la sua proto-borghesia impediscono alla Russia di sviluppare una borghesia industriale esportatrice e un capitale finanziario, e quindi di affermarsi nell’economia mondiale come una potenza imperialista. L’economia russa si caratterizza per essere quella di uno Stato-rentier, dipendente dall’esportazione delle sue materie prime e costretta a conservare la proprietà statale dell’industria pesante e dell’industria militare, non soltanto per ragioni strategiche ma soprattutto per l’impossibilità da parte dei suoi oligarchi di trasformarsi in capitalisti industriali. Una ristrutturazione completa dell’economia russa esigerebbe la fine dei sussidi statali e la chiusura di tutte le aziende inefficienti o con parchi industriali vetusti.
Secondo alcune stime un processo di questo tipo lascerebbe a casa 13 milioni di persone,
soprattutto nelle città della Russia asiatica fondate nel quadro della pianificazione sovietica.

Il regime politico burocratico-oligarchico che governa la Russia fu organizzato
dall’intervento che i siloviki (i membri delle forze armate), e tra essi in primo luogo i cekisti (ossia i membri del KGB) realizzarono alla fine degli anni ‘90 per salvare l’unità nazionale dello Stato dalla disgregazione nella quale il Paese stava finendo all’epoca eltsiniana delle razzie dei beni statali. Tale intervento ebbe l’effetto di favorire lo sviluppo e il consolidamento di regimi autoritari e bonapartisti, di natura restaurazionista in quasi tutti gli Stati dell’ex “blocco socialista”. Tra la disgregazione nazionale, che vedeva gli oligarchi spartirsi a tavolino il Paese, e il pericolo di un’ascesa della lotta della classe operaia russa contro la restaurazione, si affermò il bonapartismo putiniano, che grazie alla crescita esponenziale della domanda di materie prime da parte della Cina conobbe un periodo di significativo benessere, tanto più se comparato alla miseria generalizzata degli anni ’90. I tentativi di sviluppare una classe media tramite la rendita petrolifera sono franati con l’inizio della crisi e il conseguente crollo del prezzo delle materie prime. La conseguenza è la crisi della finanza pubblica e la riforma del sistema pensionistico sovietico degli anni ’30 che mandava gli uomini in pensione a 60 anni e le donne a 55. Proprio su questo terreno si assiste ad un’ascesa del conflitto sindacale che ha il grande merito di demarcare le ambizioni della classe operaia russa dall’opposizione liberale filo-imperialista di Navalnij.

La stessa oligarchia, costretta per un decennio a camminare sul sentiero indicatogli dal Cremlino e costretta a convivere con la burocrazia nelle aziende miste o nelle aziende statali (percependo lauti stipendi che sono in realtà dividendi nascosti), oggi è profondamente colpita dalla crisi economica globale, dalle sanzioni internazionali successive all’annessione della Crimea e dalla guerra commerciale di Trump, quindi chiede al Cremlino di capitolare di fronte all’imperialismo in cambio della fine delle sanzioni e della fine della guerra commerciale.

Significativo a tal proposito è il comportamento dell’oligarchia ucraina, che per anni ha prosperato sotto l’ala protettrice dei presidenti filorussi Kuchma e Janukovich, ma che nel 2014, nel contesto delle proteste del movimento “euromaidan”, ha avallato il colpo di stato filo-NATO che ha portato al potere l’oligarca Poroshenko. Gli oligarchi ucraini si sono scrollati di dosso tanto la tutela burocratica russa (Putin) quanto quella ucraina (Janukovich) dando vita ad un regime da loro dominato in lungo e in largo e completamente assoggettato all’imperialismo. Il terrore del regime putiniano è che consistenti settori dell’oligarchia di casa propria possano seguire quella strada.

La burocrazia restauratrice putiniana si trova nella difficile posizione di mediare tra gli interessi degli oligarchi, che cercano un punto d’appoggio nell’imperialismo, e la necessità di difendersi dall’aggressione dell’imperialismo. Conscia dell’impossibilità di scontrarsi frontalmente con l’imperialismo, cerca di raggiungere un compromesso che gli eviti un conflitto commerciale e militare dall’esito disastroso.

Nel caso specifico dell’Ucraina, l’intervento russo è reazionario non solo per la piratesca annessione della Crimea (fondamentale per la presenza della base navale di Sebastopoli, la più grande base navale russa nel mar Nero) ma soprattutto per aver contribuito, parallelamente al regime di Kiev, ad un’escalation nazionalista che ha avvelenato il rapporto secolare tra due popoli. Il nazionalismo grande-russo sostenuto da Mosca è complice del nazionalismo banderita sostenuto da Kiev nell’aver trasformato in una guerra fratricida una mobilitazione che nelle regioni industriali del sud e dell’est, dove vive il 75% della classe operaia ucraina, era di gran lunga più profonda che non nell’ovest. La classe operaia mondiale ha il dovere di sostenere quella ucraina nella sua lotta per l’indipendenza dai due nazionalismi e contro la spartizione del Paese al tavolo delle potenze internazionali. È fondamentale rivendicare la cacciata di Poroshenko, la dissoluzione della vecchia Verkhovna Rada e la nascita di una nuova Verkhovna Rada eletta da consigli operai e popolari eletti in tutta l’Ucraina, da Leopoli a Donetsk, inclusa la Crimea. Solo un’Ucraina socialista e rivoluzionaria potrà essere libera e unita. In relazione alla Siria, la difesa del regime di Assad e al tempo stesso le concessioni a Erdogan (contro i curdi del Rojava), dato il fondamentale controllo turco del mar di Marmara, e a Israele (contro le basi iraniane e di Hezbollah in Siria) dimostrano il carattere reazionario dell’intervento russo. Nel nome della difesa dei suoi interessi (e della base navale di Tartus) la Russia putiniana prima ha contribuito, complice l’imperialismo e le milizie reazionarie “takfiri”, ad affogare nel sangue la rivoluzione del 2011 ed oggi è disposta a partecipare alla spartizione della Siria, la quale ancora una volta è costretta a vivere la frustrazione delle ambizioni democratiche nazionali del popolo curdo da parte del regime bonapartista di Erdogan.

In definitiva, i due scenari militari in cui è impegnata la Russia (Ucraina e Siria) non hanno né un carattere progressivo né antimperialista, piuttosto sono il terreno sul quale la burocrazia restauratrice cerca un compromesso con l’imperialismo, e pertanto sono due interventi reazionari.

La Cina nel continente Asia-Pacifico

La Cina, diversamente dall’URSS, ha affrontato un processo di restaurazione capitalista concertato con l’imperialismo, che gli ha permesso di “esportare” l’unica materia prima di cui dispone in enorme quantità: la sua immensa forza-lavoro. Per potersi riciclare nella restaurazione capitalista, uscendo dal quadro dell’economia centralizzata ma conservando il potere dello stato e del partito, la Cina ha avuto come suo modello di riferimento il “dirigismo” asiatico dei vicini Giappone, Singapore e Corea del Sud. L’esempio “sviluppista” gli ha permesso di integrare la pianificazione economica e la proprietà statale con il libero mercato e la proprietà privata. L’investimento straniero, a partire proprio dai vicini asiatici, ha trovato in Cina un’economia caratterizzata in quasi tutti i rami industriali da una bassa composizione organica di capitale, che ha rapidamente fagocitato masse gigantesche di capitali stranieri, i quali richiedevano per le proprie produzioni poco sofisticate molta manodopera. L’occasione di trovare un saggio di profitto superiore a quello dei Paesi industrializzati ha attirato i capitalisti di tutto il mondo e trasformato la Cina in un’enorme piattaforma di sfruttamento capitalistico globale (la “fabbrica del mondo”) finalizzato all’export. Di tutto l’export cinese quello interamente sotto il controllo dei capitalisti stranieri ammonta al 42,7%, tutto il rimanente va diviso tra le esportazioni dei capitalisti cinesi, delle joint ventures e delle aziende statali.
Tuttavia, questo modello presenta enormi limiti. Se si usa quasi tutta la crescente manodopera proveniente dalle campagne in produzioni a basso valore, inevitabilmente scarseggerà quella per le produzioni ad alto valore, nelle quali di fatto la Cina continua ad essere deficitaria. Il programma “China 2025” è la dimostrazione della consapevolezza di questa lacuna da parte del PCC. Il risultato provvisorio della restaurazione capitalista restituisce un capitalismo “grande” ma non ancora sviluppato. La Cina è economicamente più grande di molti Paesi industrializzati ma a differenza di questi, nei quali ci sono di fatto solo due classi (borghesia e proletariato), la Cina ha un’enorme fetta di popolazione rurale dell’entroterra completamente estranea allo sviluppo delle grandi metropoli orientali. L’insieme delle relazioni capitaliste non occupa ancora la totalità delle relazioni sociali.

La sua integrazione all’economia mondiale vede oggi un rallentamento di quella crescita strabiliante vissuta negli ultimi decenni a causa della riduzione dei consumi nei Paesi imperialisti. L’enorme mercato interno che ha generato è incapace di sostituire quello esterno, costituito essenzialmente dai Paesi occidentali. La necessità da parte dello Stato cinese di controllare i rami più importanti dell’economia e dell’industria, la non convertibilità internazionale della sua moneta, la dipendenza dei propri capitalisti dall’investimento e dal consumo estero e l’impossibilità di costruire un modello economico basato su salari alti sull’esempio del fordismo americano d’inizio Novecento, rappresentano un serio limite allo sviluppo di una borghesia industriale autonoma in concorrenza con le altre e, di conseguenza, allo sviluppo della Cina come Paese imperialista.

La Cina è un gigante con i piedi d’argilla: una ristrutturazione delle imprese statali, che sono fuori mercato e generano un deficit enorme nelle casse dello Stato, un processo di deindustrializzazione e di fuga verso paesi con salari più bassi, come conseguenza dei salari in aumento (a seguito di enormi lotte operaie e dell’ascesa di sindacati indipendenti), e lo scoppio di una enorme bolla immobiliare scatenerebbero una crisi rivoluzionaria in Cina, in un Paese nel quale in questi ultimi decenni si è potuto assistere alle più grandi concentrazioni industriali del mondo. Le misure approvate per controllare i conti delle imprese private da parte della burocrazia del partito e l’arresto generalizzato di capitalisti e burocrati per casi di corruzione dimostrano che la burocrazia cinese sta adoperando misure straordinarie per evitare una bancarotta dell’economia cinese, che è indebitata per il 282% del PIL.

Il bonapartismo di Xi Jinping sorge e si erge ad arbitro della società cinese in un contesto caratterizzato da una parte dall’ascesa di gigantesche lotte studentesche e operaie (con un’interessata accondiscendenza governativa nei confronti dell’aumento dei salari) e dall’altra da una coriacea resistenza padronale, tanto cinese quanto straniera, agli aumenti salariali.
Tuttavia, la politica cinese di sostituzione dei consumi dei Paesi occidentali con i consumi
interni, iniziata oltre un decennio fa sotto la presidenza di Hu Jintao, oltre ad essere sino ad oggi fallimentare, espone il gruppo dirigente cinese a un conflitto coi capitalisti stranieri e con quelli autoctoni, tra i quali anche dirigenti del PCC, i quali esigono invece la conservazione del modello economico attuale, tanto più in un contesto di erosione del saggio di profitto e di conseguente aggressione capitalista al capitale variabile (ossia ai salari). La questione dei capitalisti membri del PCC è cruciale. La restaurazione della proprietà privata e di quasi tutto l’edificio del diritto borghese non poteva non investire soprattutto gli uomini di potere del partito, i quali, data la loro posizione nella società cinese, partono da una posizione privilegiata.
Il fatto che un settore del partito e dell’esercito (non si sa quanto consistente) sia direttamente impegnato nel mondo degli affari e abbia un legame inscindibile col mercato mondiale, espone lo stesso PCC e tutta la Cina a seri rischi soprattutto in caso di guerra o di blocco navale, tanto più se si pensa che c’è un settore del partito che chiede a Xi Jinping di non farsi trascinare nella guerra commerciale di Trump e di aprire ulteriormente l’economia agli stranieri in cambio della conservazione (utopistica) delle decennali relazioni commerciali tra gli USA e la Cina.

I limiti tecnologici dell’industria cinese e la dipendenza dall’emulazione delle tecnologie dei Paesi più avanzati si riflettono nell’industria militare, vitale per la difesa dell’integrità del Paese.
L’unica portaerei di cui dispone la Marina Cinese, la Liaoning, è una vecchia incompiuta portaerei sovietica acquistata dall’Ucraina nei primi anni 90 (all’epoca chiamata Varyag, era una delle otto portaerei della Marina Sovietica) e successivamente ristrutturata. La seconda (varata ma non ancora pienamente operativa) di nome Shandong è essenzialmente basata sull’architettura della prima. Non esiste altra soluzione per un Paese che non ha una tradizione navale. La Cina teme, e ne ha ben donde, la vulnerabilità sui mari poiché tramite essi giungono le grandi quantità di materie prime delle quali necessita la sua economia. Tramite lo stretto di Malacca passa il 65% del petrolio importato. Lo scenario più probabile di un conflitto tra USA e Cina è proprio quello di una guerra nella regione Asia-Pacifico e nell’Oceano Indiano. Gli USA non hanno nessuna intenzione di invadere via terra la Repubblica Popolare Cinese, ma piuttosto di provocare un collasso interno per mezzo di un blocco navale con la complicità degli alleati nella regione (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine), facendo leva sulle insanabili contraddizioni della società cinese. La classe operaia mondiale nel caso probabilissimo di guerra navale alla Cina deve difendere il diritto della RPC e della sua classe operaia a difendersi senza alcun sostegno alla burocrazia del PCC.

Medio Oriente e Nord Africa

All’interno dello scenario generale della crisi economica mondiale e delle crisi politiche da essa prodotte, occupa un posto particolare la situazione del Medioriente e del Nord Africa. La crisi capitalista mondiale ha generato, in questa regione che ha enormi riserve di petrolio e gas, una crisi dei regimi politici consolidati da decenni di potere dispotico e fedeltà ai Paesi imperialisti. Tale processo rivoluzionario in alcuni casi ha visto crollare i vecchi regimi (Tunisia), in altri dopo una breve parentesi li ha visti ricostituirsi sotto l’egida dell’esercito (Egitto), in altri ancora ha visto la trasformazione del processo rivoluzionario in guerra civile egemonizzata da milizie reazionarie al soldo delle potenze imperialiste e dei loro alleati regionali.

La guerra in Siria e quella in Yemen sono le arene nella quale si scontrano potenze reazionarie grandi e piccole. Il Medioriente vede la presenza di diversi regimi reazionari: il blocco sionista-saudita (braccio destro e sinistro dell’imperialismo USA), centro regionale della reazione, sostenitore dei poteri costituiti e della repressione violenta delle lotte; il Qatar, sostenitore dei Fratelli Musulmani e della strategia di egemonizzazione del processo rivoluzionario (Ennahda in Tunisia, Morsi in Egitto); l’Iran, sostenitore di Assad e di Hezbollah in Libano. Mentre i primi due sono inquadrati nel sistema di potere dell’imperialismo USA, l’Iran, che è tra i paesi industrialmente più avanzati del Medioriente, vede riacutizzarsi il conflitto che lo contrappone da decenni agli Stati Uniti in seguito alla cacciata dello Shah e al soffocamento della rivoluzione iraniana da parte del clero sciita. Il capitalismo dei mullah, la cui economia è tuttora al 60% pianificata dallo Stato, non ha trovato alcun giovamento significativo dall’accordo sul nucleare, ed è attanagliato da una crisi economica e politica che ha prodotto, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, le più grandi mobilitazione operaie dal 1979 ad oggi. Il ritiro degli USA dagli accordi sul nucleare offre mano libera a Israele e all’Arabia Saudita (terrorizzati dalle mobilitazioni operaie e popolari in Iran) per aggredire l’Iran, e trascinarlo in una guerra che ha per obiettivo la colonizzazione e l’accaparramento delle sue risorse. Una guerra di questo tipo, su mandato degli USA che non nascondono più il progetto di cambio di regime, avrebbe, da parte dell’Iran, tutte le caratteristiche di una guerra per l’indipendenza nazionale, guerra che può essere combattuta e vinta solo dalla classe operaia iraniana e dalla sua capacità di coinvolgere la classe operaia dell’intero Medioriente, in una prospettiva di liberazione sociale e nazionale, soprattutto per il popolo curdo e quello palestinese.

Quest’ultimo, solo in un contesto di rivoluzione sociale dell’intera regione può trovare un
valido sostegno alla sua eroica lotta ormai settantennale contro lo stato di apartheid sionista e per una Palestina unita, laica e socialista, dal Giordano al mare. La prospettiva di una Palestina unita, laica e socialista va ricondotta alla rivendicazione di una Federazione di repubbliche Socialiste del Medioriente e del Nord Africa.

La politica di Trump nei confronti dell’Iran pone in serio pericolo la strategia di “pacificazione” della penisola coreana e le offerte nei confronti di Kim Jong-Un. Dopo decenni di sviluppo della propria strategia di deterrenza nucleare, il leader della dinastia stalinista nordcoreana è disposto a rinunciare alla deterrenza in cambio di investimenti economici nel Nord, che gli diano la possibilità di riciclare la sua burocrazia in una “unificazione” con il Sud industrializzato sullo stile Cina-Hong Kong (“un paese, due sistemi”), ed in cambio dello smantellamento degli armamenti pesanti Usa in Sud Corea e Giappone. Questa seconda richiesta per gli USA è inaccettabile poiché la trattativa con la Corea del Nord ha lo scopo di rafforzare l’accerchiamento di Cina e Russia e di sottrarre un Paese di 25 milioni di persone, con un elevato livello di alfabetizzazione e con una grande quantità di materie prime, alla loro influenza. L’unica possibilità di unificazione della penisola coreana è nelle mani della classe operaia, del Nord e del Sud, e della sua iniziativa politica indipendente.

L’America Latina nell’era di Bolsonaro

L’America Latina si caratterizza, nella fase attuale, per l’esaurimento di quelle esperienze “nazionaliste” e “popolari” che, sorte come conseguenza della crisi globale, negli sconvolgimenti precedenti lo scoppio del 2008, si distinsero per essere un’operazione di salvataggio del capitale e sono state affossate, una dopo l’altra, dalla stessa crisi globale. Il collasso delle esperienze “nazionali e popolari” ha creato una situazione particolare: l’emergere di governi di destra, alcuni attraverso elezioni, altri attraverso colpi di stato “parlamentari”, e soprattutto l’ascesa di Bolsonaro in Brasile. Nel quadro di queste esperienze si sono sviluppate lotte a carattere di massa, sebbene in Argentina e in Brasile Macri e Temer siano riusciti a far passare riforme strategiche antioperaie con la collaborazione del peronismo e del PT.
L’elezione a presidente del Brasile di Bolsonaro è la cartina di tornasole del fallimento delle “sinistre populiste”. Pochi mesi dopo l’indicazione da parte dei sondaggi di Lula come probabile vincitore (nel caso la giustizia gli avesse dato facoltà di candidarsi), un ex capitano dell’esercito brasiliano, proveniente dall’anonimo sottobosco fascista, vince le elezioni nel più importante Paese dell’America Latina. La vittoria di questo fascista non vuol dire però la vittoria del fascismo in Brasile. Non solo il fascismo per svilupparsi esige un contesto di guerra civile ma soprattutto esso può consolidarsi solo a partire dalla sconfitta, in tale guerra civile, della classe operaia. La quale alle ultime elezioni si è contraddistinta per aver votato, in diverse regioni industriali del Brasile, proprio per Bolsonaro. L’annuncio di una guerra economica alla Cina, principale partner economico del Brasile, apre una serie di contraddizioni con l’industria agroalimentare che ne ha favorito l’ascesa. Il regime di Bolsonaro è lontano dal consolidarsi come regime fascista, e si caratterizzerà presto per essere piuttosto un fattore di accelerazione del conflitto sociale e dell’ascesa della lotta di classe in Brasile.

L’affossamento da parte di Trump dell’apertura di Obama a Cuba ripropone la questione dell’embargo a Cuba e della difesa della rivoluzione cubana, in un contesto segnato da profonde riforme che avvengono sotto la pressione dei settori sociali arricchitesi con le riforme precedenti. La minaccia di un intervento esterno a Cuba torna a riproporsi nel quadro di un Paese segnato da profonde divisioni sociali, con interessi contrastanti e contrapposti.

In relazione al Venezuela è fondamentale ricordare che il governo Maduro non è un governo operaio o socialista ma un governo dell’esercito e di un settore dell’oligarchia (la
“boliburguesía”), impegnato in un compromesso col capitale finanziario, come dimostrato, tra le tante cose, dalla questione delle riserve petrolifere e la vendita all’asta al capitale internazionale. Segnaliamo la minaccia del blocco economico, del colpo di stato e dell’intervento militare in Venezuela, che può essere sconfitto solo attraverso l’agitazione e la mobilitazione della classe operaia, indipendente dal chavismo come dalla destra della MUD.

L’America Latina è il “cortile di casa” dell’imperialismo yankee e in quanto tale non è aliena dalle guerre imperialiste, né potrebbe esserlo. L’imperialismo statunitense non ha la necessità di “disintegrare” l’America Latina poiché essa è già divisa in decine di Stati. Sin dal ciclo rivoluzionario del 1810-1820 l’imperialismo Usa ha messo il bastone tra le ruote a qualunque processo di integrazione tra i Paesi latinoamericani, presupposto fondamentale di un loro sviluppo indipendente dal Nordamerica. Il gigantismo della produzione industriale e della distribuzione del XXI° secolo ripropongono con vigore la parola d’ordine degli Stati uniti socialisti dell’America Latina.

Il rilancio di un imperialismo franco-tedesco nel quadro della disintegrazione dell’Unione Europea

L’Europa, patria del capitalismo, nel contesto generale del suo declino, e dopo un decennio e più di stallo politico e istituzionale, assiste alla disintegrazione dell’Unione Europea. Non è sinora riuscita ad avanzare verso una maggiore integrazione politica e istituzionale a causa della crisi economica e della tendenza dei grandi gruppi capitalisti “nazionali” ad usare gli stati-nazione come scudo, e non può tornare indietro a ciò che c’era prima del mercato comune a causa dell’elevato livello di integrazione delle rispettive economie e della necessità vitale di operare in un mercato grande che renda sostenibili grandi investimenti e una produzione su una scala superiore a quella nazionale (in un contesto internazionale che vede scontrarsi giganti economici e demografici).

La questione della Brexit occupa, all’interno della disgregazione dell’UE, un ruolo cruciale. L’accordo negoziato con l’UE vede il governo di Teresa May sotto il fuoco incrociato degli hard brexiters e dei remainers. Tuttavia, soprattutto i primi sono del tutto incapaci di poter offrire un’alternativa reale al governo della May e all’accordo conseguito. Non a caso l’UKIP è in una crisi che ha portato alle dimissioni di Nigel Farage e i Tories contrari all’accordo sono ben lungi dal trovare una quadra e riuscire a organizzare un governo alternativo. Il contenuto dell’accordo riflette l’integrazione dell’economia britannica in quella europea e la dipendenza da essa. Il settore delle classi dominanti che vide con interesse l’uscita dall’UE, ossia l’aristocrazia finanziaria, è oggi completamente incapace di organizzare un’iniziativa politica in grado di ricomporre una proposta unitaria, un quadro d’insieme. Il governo conservatore riflette questa contraddizione, ed è oggi, come già indicato precedentemente, sotto ricatto da parte di Trump. Questo acuisce ulteriormente la crisi politica nel Regno Unito, di gran lunga superiore alla sua crisi economica ma in grado di approfondirla sensibilmente. Da una parte le esigenze di scala, soprattutto dell’industria manifatturiera, che impongono la permanenza nel mercato unico. Dall’altra l’esigenza della City di svincolarsi dalle regole dell’UE trasformandosi in una piattaforma offshore finanziaria e di cercare un accordo con Trump e la Cina, fortemente interessata all’internazionalizzazione dello yuan sulla piazza di Londra.
Questo conflitto nel seno del Partito Conservatore non è inedito. Già in occasione della guerra delle Malvinas il settore Tory legato all’aristocrazia finanziaria era nettamente contrario all’invio della Royal Navy per recuperare le Malvinas occupate dalla dittatura militare argentina. Prevalse invece la posizione di Margaret Thatcher e del settore del partito legato alla borghesia industriale. Questa guerra intestina alle classi dominanti del Regno Unito investe la stessa tenuta del Regno Unito, con la Scozia che minaccia l’uscita dal Regno in caso di Brexit e con la possibilità di una ri-esplosione del conflitto nordirlandese, in seguito al probabile ristabilirsi di una frontiera tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda.

In questo contesto si assiste da poco a due fenomeni paralleli: da un lato una tendenza generale dell’Unione Europea alla disintegrazione come prodotto delle forze centrifughe, messe in moto dalla crisi (di cui la Brexit è il caso più importante), e centripete (indipendentismo catalano, scozzese e fiammingo), prodotto di un enorme circolazione del capitale che ha il suo cuore in Germania; dall’altro il rilancio dell’asse franco-tedesco e la proposta di un salto di qualità nella unificazione europea, a partire dai Paesi dell’eurozona. Dopotutto la disintegrazione non riguarda una qualunque unità quanto piuttosto il progetto utopico di una unificazione pacifica del continente europeo. I due casi precedenti nei quali l’Europa è stata politicamente unita sono avvenuti entrambi nello scenario della guerra e dell’occupazione militare, da parte della Francia napoleonica prima e della Germania hitleriana poi, entrambi all’assalto – fallito – della Russia. E proprio questi due Paesi sono oggi i protagonisti di un tentativo di rilancio del progetto europeo con una più stretta unificazione economica (bilancio comune della zona euro) e politica e con la proposta di costruire un esercito europeo svincolato dalla NATO (oltre che un servizio di intelligence comune). Nel contesto generale, precedentemente segnalato, di un inasprimento delle relazioni tra i Paesi imperialisti nel quadro di una guerra imperialista alla Russia (e alla Cina), l’imperialismo francese e quello tedesco, consci della loro debolezza – se considerate come potenze isolate – e della subordinazione alla NATO, si organizzano per partecipare alla spartizione del bottino, da una posizione indipendente. A favore del progetto gioca un’unità economica, industriale ed infrastrutturale soprattutto del centro del continente (l’eurozona), con una dinamica che replicherebbe, in caso di successo, la trasformazione dello zollverein tedesco (unione doganale) nella Germania unificata bismarckiana. Proprio quell’episodio storico vide la fine del Deutscher Bund al quale partecipava anche l’Austria (che invece non era parte dello zollverein) e l’accelerazione nell’unificazione della Kleine Deutschland (piccola Germania, ossia senza l’Austria) come risultato della guerra austro-prussiana del 1866. Il rilancio del processo d’unificazione a guida franco-tedesca è reso possibile, prima ancora che dall’escalation della guerra commerciale di Trump, dalla Brexit, ossia dalla potenziale uscita di scena (tutta ancora da verificare) di un Paese con una minore integrazione rispetto al resto del continente, a partire dalla politica monetaria. Ciò che invece gioca contro questo progetto è l’enorme forza degli stati nazionali (di gran lunga superiore ai principati tedeschi assimilati dalla Prussia) dovuta alla loro centralità nell’essere i salvatori di ultima istanza di banche e grandi aziende, nonché la presenza di decine di migliaia di soldati americani sul continente europeo, e soprattutto in Germania.

Questo tentativo di rilancio imperialista europeo avviene in un contesto di grande crisi politica dei due soggetti principali. In Germania, la CDU, all’imbrunire del ciclo di Angela Merkel, è in crisi, incalzata alla sua destra dall’avanzata dell’estrema destra di AfD. In Francia, Macron affronta il combattivo movimento dei “gilet gialli” che, a partire da una mobilitazione inizialmente convocata per respingere l’accisa sulla nafta, si trova, mentre si scrivono queste righe, alla sesta settimana di mobilitazione, nonostante il ritiro del progetto iniziale (con aumento dei prezzi sul carburante) e l’annuncio dell’aumento dello SMIC (salario minimo intercategoriale). L’originale mobilitazione a composizione prevalentemente piccolo borghese (autotrasportatori, tassisti, piccoli commercianti, ecc..) ha finito per trascinare con sé una massa sempre più grande di lavoratori salariati, non ancora mobilitati con le proprie strutture tradizionali, in primo luogo i sindacati, ma con un altissimo livello di combattività.

L’eventuale unificazione imperialista europea si differenzia dall’unificazione tedesca e italiana in merito ad una questione principe. Queste ultime avvennero nel XIX secolo in un contesto di generale ascesa del capitalismo, la quale permise agli Stati preunitari, e soprattutto agli Stati egemoni tra essi (Prussia e Piemonte), di costruire un grande mercato interno e sconfiggere o trasformare profondamente le relazioni sociali nelle campagne, baluardo del feudalesimo.

La tortuosa e contradditoria costruzione di una Europa unita a guida franco-tedesca, invece, non ha nulla di progressivo. Il suo scopo non è affossare le classi dominanti precapitalistiche ma rafforzare il dominio sul proletariato e competere con gli USA nel quadro generale della restaurazione capitalista in Russia e Cina. La classe operaia europea deve sconfiggere qualunque idea di una Europa “sociale e democratica”, architrave programmatica della sinistra democratizzante. Resta valido il giudizio politico di Lenin sugli Stati Uniti d’Europa: essi saranno reazionari o non saranno. All’Europa di Macron e della Merkel, come a quella di Le Pen e Salvini, occorre contrapporre gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, da Lisbona a Vladivostok, dall’Atlantico al Pacifico.

L’Italia nella guerra imperialista

In questo quadro internazionale così complesso, che vede l’Unione Europea nell’occhio del ciclone, l’Italia appare l’anello debole di una catena in estrema tensione. Il suo sistema bancario è fortemente in crisi, con il 20% di crediti insolventi e l’aggravante che, nel suo insieme, non potrà essere salvato dallo Stato italiano, già fortemente indebitato (136% del PIL). Il salvataggio sotto il governo Renzi di MPS (a scapito delle finanze pubbliche, cioè dei proletari) con l’aumento del debito pubblico è solo un anticipo della voragine che aspetta l’economia italiana.
Il debito pubblico, e soprattutto il suo costo per interessi, è destinato ad aumentare vertiginosamente. La fine del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea (ossia l’acquisto di titoli di Stato ad un tasso di interesse inferiore rispetto ai privati) apre una fase di instabilità, economica e politica, ancora maggiore. Fino ad ora la BCE ha investito 345 miliardi in titoli di stato italiani, il 16% del PIL, e ciò ha comportato un risparmio di 15 miliardi l’anno sui costi del debito. Le prime aste BOT e BTP gestite dal governo M5S-Lega, senza il paracadute della BCE e ovviamente pagando un interesse più alto di quello pagato alla BCE (finendo per aumentare il rapporto debito/PIL), vedono una situazione di difficoltà di vendita, tanto più in seguito al declassamento del rating italiano, un solo grado sopra il livello “junk” (spazzatura). Il declassamento operato dalle agenzie di rating fa sì che l’Italia dovrà pagare interessi ancora maggiori per nuovi prestiti, creando un circolo vizioso che non ha altro sbocco che non sia il default, il quale trascinerebbe con sé il resto dell’economia europea, e soprattutto Francia e Germania, grandi possessori del debito pubblico italiano (e principali attori del rilancio del progetto imperialista europeo). Si rivela totalmente infondata l’ipotesi sovranista di riacquisto del debito italiano da parte del risparmio privato “nazionale” (4mila miliardi di euro).

Il governo M5S-lega, come previsto, lontanissimo da qualunque stabilizzazione, è un governo in perenne fibrillazione a causa del fatto che non ha alcuna possibilità di realizzare il suo “contratto di governo” (che è già ben più modesto rispetto alle promesse elettorali) e pertanto non ha alcuna possibilità di evitare una crisi politica. L’offensiva ideologica xenofoba e omofoba che il governo ha intrapreso nei primi mesi di vita, soprattutto per mezzo delle iniziative del Ministro degli Interni Salvini, rappresenta la vitale necessità di coprire l’impossibilità di realizzare anche solo una piccola parte delle promesse. Lo “zapaterismo di destra” del governo si inscrive in un contesto di aumento del debito e di grave crisi industriale che ha come unico sbocco l’erosione del consenso relativo di cui oggi godono i partiti che compongono la maggioranza.

Nelle settimane in cui scriviamo questo testo il governo è impegnato in una umiliante trattativa con la Commissione Europea per evitare la procedura di infrazione in seguito all’annunciato sforamento del deficit pubblico. Il governo ha annunciato il passaggio dal 2,4 % al 2,04% con un conseguente ulteriore taglio delle misure che trionfalisticamente erano state annunciate nei giorni di approvazione del DEF. Il disastroso quadro generale economico, l’opposizione padronale alle misure del governo con conseguente inversione di rotta da parte dello stesso, e l’impossibilità di una politica indipendente da parte dei partiti della borghesia medio-piccola, portano il governo ad applicare le stesse politiche dell’odiato establishment, il quale a gran voce chiede un riallineamento alle istituzioni europee e alle politiche della troika.
Tra quest’ultime: la riduzione delle spese amministrative da parte dello Stato con conseguente aumento dell’avanzo primario (ossia della differenza tra il gettito fiscale e le spese delle amministrazioni pubbliche) adoperato per pagare gli interessi sul debito; attacco ai lavoratori statali; privatizzazioni e dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico per 18 miliardi di euro; tagli alla scuola, alla sanità e agli altri servizi sociali.

La crisi italiana è solo un episodio della crisi capitalista mondiale, che ha sconvolto tutti i
vecchi equilibri e messo in discussione la cosiddetta globalizzazione, la quale si affermava avesse superato le contraddizioni tra gli Stati e che in realtà le ha esacerbate al punto tale che l’Unione Europea è sull’orlo della disintegrazione e Trump ha imposto al mondo una guerra commerciale e monetaria (storicamente preludio delle guerre imperialiste). La crisi italiana dimostra anche, nel contesto generale del declino del capitalismo, il declino di quello italiano. Priva di materie prime, con una demografia limitata e con una parte del territorio economicamente depressa e lontana tanto geograficamente quanto dal punto di vista infrastrutturale dal resto del continente, l’Italia non ha alcuna possibilità di resistere al di fuori del mercato unico europeo e della sua moneta. A differenza del Regno Unito, la cui probabile uscita dall’UE troverebbe una leva nell’attività finanziaria di Londra, già restia negli anni scorsi a sottoporsi ai regolamenti bancari europei, l’Italia vede le sue attività principali dipendere fortemente dal mercato unico. La fine della guerra fredda, che vedeva l’Italia in una posizione strategica per la Nato, e l’allargamento ad est delle frontiere della stessa Nato, ridimensionano enormemente la pur strategica posizione dell’Italia nel cuore del mediterraneo. Il suo prolungarsi nel mediterraneo le permetteva e le permette di essere una sorta di portaerei naturale per la potenza aerea della Nato, come dimostrato dalla guerra in Jugoslavia negli anni ’90. Nel contesto della guerra fredda l’Italia fu una piattaforma nevralgica per l’insieme delle forze alleate e ha visto una quantità elevata di basi navali e aeree ospitare un enorme potenza distruttiva, anche nucleare. Secondo alcune fonti, le basi italiane di Ghedi ed Aviano dovrebbero ospitare complessivamente dalle 30 alle 50 bombe nucleari B61. Il rilancio del progetto imperialista europeo a guida franco-tedesca, nel contesto di un inasprimento delle relazioni con gli Usa, espone l’Italia ad una serie di convulsioni relativamente alla sua collocazione sullo scacchiere internazionale. Nessuno dei due blocchi imperialisti rinuncerà facilmente all’Italia e al tempo stesso quest’ultima sarà sempre più esposta, da una parte alla forza attrattiva del salto di qualità politico e istituzionale dell’eurozona, dall’altro al rilancio del militarismo americano e al suo tentativo di dissoluzione dell’Europa (facendo leva sui “sovranisti” al governo, essi stessi sottoposti, come dimostrato dal caso italiano e da quello austriaco, alla pressione delle rispettive borghesie).

Nel quadro di una crisi economica catastrofica che si prospetta nel prossimo periodo, con la crisi congiunta del sistema bancario e del debito pubblico, è fondamentale che la sinistra rivoluzionaria emerga come alternativa tanto ai sovranisti quanto all’establishment liberale. L’intrecciarsi della guerra economica (con le sue conseguenze sull’industria) e della guerra militare obbligano le forze della sinistra che si rivendica rivoluzionaria ad intrecciare le lotte “economiche” ad una prospettiva di potere. L’unico soggetto che può evitare la guerra è un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. È fondamentale che la sinistra di classe abbia al centro del proprio programma una prospettiva di potere poiché l’accelerazione della crisi economica, avendo sullo sfondo la crisi del regime politico, porrà molto presto all’ordine del giorno la questione di quale classe sociale comanda nella società. Ma nessuna rivendicazione di potere si può immaginare senza campagne politiche che partano dalle rivendicazioni immediate dei lavoratori. Urge la costruzione di una campagna che rivendichi l’annullamento del debito pubblico usurario verso speculatori, banchieri e capitalisti; e al tempo stesso, la nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni, senza alcun indennizzo eccetto che per i piccoli risparmiatori, sotto il controllo operaio e popolare. Nel contesto della prevedibile e da noi già prevista capitolazione dei sovranisti all’establishment europeo, dobbiamo rivendicare la rottura unilaterale dei trattati europei e di conseguenza l’uscita dell’Italia dall’UE, alla quale contrapponiamo gli Stati Uniti Socialisti d’Europa. È necessaria una campagna unitaria contro i venti di guerra sempre più presenti, per la nazionalizzazione delle industrie militari, senza alcun indennizzo, e la loro riconversione, sotto il controllo operaio e popolare, in industrie ad uso civile; l’uscita dell’Italia dalla NATO (con la chiusura delle sue basi militari), con il rifiuto al tempo stesso di aderire al blocco imperialista europeo. È fondamentale la riproposizione strategica di una “guerra alla guerra imperialista” per salvare l’umanità dalla catastrofe bellica.

Prospettiva Operaia

Dicembre 2018

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