I travagli del DEF

Di Michele Amura

Il Decreto di Economia e Finanza (DEF) proposto dal governo ha scatenato una serie di crisi: in primis con la Unione Europea contraria all’alto deficit che creerà la manovra finanziaria; poi all’interno dello stesso governo con una rottura tra i 5 Stelle e la Lega sul condono.

Il DEF e le promesse elettorali

Il governo tenta con questa manovra finanziaria di difendere il proprio consenso elettorale. Per fare questo deve concedere alla propria base le promesse fatte in campagna elettorale e nel contratto di governo; ma questo è incompatibile con la crisi economica italiana, dei suoi bilanci statali e con i vincoli della Unione Europea. Su questa contraddizione di fondo si basa tutto il DEF.

Le risorse messe per il reddito di cittadinanza sono totalmente insufficienti, con i 10 miliardi stanziati non si coprono minimamente i 6 milioni e mezzo di poveri assoluti ai quali si è promesso un reddito di 780 euro – a maggior ragione che 2 di questi miliardi sono stati destinati per la riforma dei centri dell’impiego. Facendo un semplice calcolo matematico si è dimostrato che con le attuali risorse arriverebbero solo 103 euro alle persone che avrebbero diritto al reddito, o si dovrebbe ridurre gli aventi diritto ad un solo milione di persone per dargliene 780. Anche se si tiene in conto che il reddito può essere integrativo, cioè che non tutti i 6 milioni e mezzo devono ricevere 780 euro, ma una integrazione (di 100,200,300 euro) al proprio salario che li porti a soglia 780, è impensabile che questo basti per raggiungere pienamente le coperture. Basti pensare che in Italia ci sono circa 3 milioni di disoccupati e 3 di inoccupati, che compongono la grossa parte dei poveri assoluti a cui spetta il reddito di cittadinanza.

Un’altra parte importante del DEF riguarda la cosiddetta “quota 100” per le pensioni. Una misura del tutto insufficiente per migliorare nettamente le condizioni per andare in pensione dei lavoratori, ancor di più se comparata con la promessa di abolire la Fornero. Infatti la riforma del governo consiste nel poter andare in pensione dai 62 in su se si hanno 38 anni di contributi, perdendo però il 25% della propria pensione. Considerando che le pensioni dei lavoratori sono sempre più misere – per il passaggio definitivo al sistema contributivo e l’abbassamento dei salari, che comporta un abbassamento dei contributi pensionistici – la decurtazione del 25% della pensione obbligherà milioni di lavoratori a rimanere sul posto di lavoro.

L’ultimo aspetto importante della manovra è la Flat Tax per i professionisti, che prevede un imposta del 15% per i redditi fino a 65.000 euro e del 20% fino ai 100.000. Oltre ad essere un ingiustizia sociale per i lavoratori che pagano molte più tasse (23% fino ai 15.000, 27% fino ai 28.000, 38% fino ai 50.000) è un topolino rispetto alla montagna promessa in campagna elettorale, cioè la Flat Tax per tutte le imprese e non solo per i liberi professionisti.

Lo scontro con la UE

Nonostante il governo abbia limitato parecchio le proprie promesse elettorali per mantenere il deficit ad una soglia accettabile, con un indebitamento nella norma – il deficit previsto è del 2,4%, in media col deficit medio della passata legislatura equivalente al 2,6% – la Unione Europea ha fortemente criticato la manovra e si prepara a bocciarla definitivamente. Quello che fa alzare la tensione tra la commissione europea e il governo italiano è lo scontro politico tra Salvini e Junker, ossia tra uno dei massimi esponenti dell’area sovranista, che vuole con le prossime elezioni europee prendere il controllo dell’Unione scalzando l’attuale direzione “europeista” del Partito Popolare e il Partito Socialista europeo, che ha nominato Junker a capo della commissione europea. Il botta e risposta tra Salvini e Moscovici, con l’italiano che commenta “a maggio spazzeremo via Junker e Moscovici”, alludendo che le prossime manovre finanziarie non saranno più giudicate da esponenti del rigore europeo; e il francese che ribadisce la sua permanenza nel ruolo di commissario europeo all’economia fino al Novembre del 2019, e che quindi giudicherà anche la prossima finanziaria, dimostra che lo scontro sulla stabilità del DEF è stato inasprito da problemi politici sul comando e la direzione dell’Unione Europea.

Aldilà dell’inasprimento dello scontro per temi politici rimane il problema di fondo che è la crisi economica italiana e dei suoi bilanci pubblici, e l’effetto che questa può avere sull’Unione Europea. Infatti il deficit viene giudicato, non a torto, insostenibile per l’Italia visto il suo alto livello d’indebitamento e il basso livello di crescita dell’economia. In un paese che ha il 3° debito pubblico al mondo – 2300 miliardi pari al 130% del PIL – ed una economia in stagnazione da 15 anni, e che vedrà il costo di finanziamento del proprio debito pubblico aumentare senza dubbi come conseguenza della fine del Quantitative Easing della BCE, che aveva ridotto pesantemente il costo del debito – nel 2017 l’Italia ha pagato 65 miliardi di euro per gli interessi del debito pubblico, mentre prima del Quantitative Easing della BCE ne pagava 85 – aumentare il debito con una manovra finanziaria fortemente in deficit equivale a buttare benzina su un fuoco di una crisi che era già in atto.

Il declassamento del debito pubblico italiano da parte delle compagnie di rating – già Moody’s ha declassato l’Italia di un livello – significa che lo stato italiano non viene riputato credibile nel ripagare il proprio debito, ciò comporta che chi farà credito allo stato italiano chiederà interessi più alti, di fronte ad un rischio più alto di non esser ripagato, da qui l’aumento del costo del debito pubblico; ma anche una sua svalutazione e delle sue azioni, questo comporta la perdita di valore del patrimonio delle banche italiane che sono le principali creditrici verso lo stato. La crisi del debito pubblico si trascina la crisi del sistema bancario italiano che, oltre ad avere nei propri bilanci una gran quantità di titoli “spazzatura” cioè che non possono essere riscossi (il 20% dei crediti), hanno circa 200 miliardi di titoli di stato (a cui si aggiungono 200 miliardi della Banca d’Italia).

Questa catastrofe economica in cui si sommano la crisi del debito pubblico e la crisi del sistema bancario può portare l’Italia in un processo di bancarotta e depressione economica, che a sua volta avrebbe delle fortissime ripercussioni nella UE e causare un processo di disgregazione del mercato unico europeo. L’interesse di Junker e Moscovici per il deficit italiano non è per nulla una esagerazione.

Da dove spunta la “manina”

Lo scontro tra Di Maio e Salvini sulla “manina” che avrebbe inserito l’immunità per chi condona i propri capitali ha del ridicolo. Non solo è una misura, l’immunità, che sempre è accompagnata al condono fiscale, perché nessuno utilizzerebbe un condono se poi è passibile di condanna per evasione fiscale; ma inoltre è inverosimile che qualche esponente politico o qualche funzionario dello stato modifichi un articolo di un decreto del governo pensando che ciò passi inosservato. Detto questo, se Di Maio si è coperto di ridicolo con la denuncia della “manina” è per difendere il consenso della propria base militante ed elettorale. Infatti i vertici dei 5 Stelle erano preoccupati che le concessioni fatte alla Lega nel DEF avrebbero potuto far scaturire un malcontento tra i propri militanti e simpatizzanti, che dopo pochi giorni si sono riuniti al Circo Massimo nel tradizionale appuntamento nazionale del movimento grillino. La “manina” è un sentore di una possibile crisi di consensi, in un prossimo futuro, dei 5 Stelle e del Governo Conte.

Conclusioni

Il DEF del governo ha dei seri limiti: da una parte stima di contenere il problema del debito prevedendo una crescita economica irrealistica (una media del 1,4% nei prossimi 3 anni) non solo per la crisi economica italiana e la modestia delle misure contenute nel DEF, ma soprattutto per la crisi capitalista mondiale e le sue ripercussioni in Italia – ad esempio la crisi turca vede una forte esposizione delle banche italiane o la guerra commerciale di Trump all’Europa potrebbe colpire anche le imprese italiane; dall’altra la strategia politica di Salvini e Di Maio di poter contare su una Europa “sovranista” che allenti la pressione sui bilanci italiani è pura fantasia, ammesso e non concesso che i sovranisti vincano in Europa, il sovranismo tedesco, francese, austriaco o finlandese ha interessi nazionali contrapposti agli interessi italiani, perciò non ci sarebbe nessun occhio di riguardo rispetto al debito pubblico dello stato italiano e la sua economia, come dimostrano le recenti dichiarazioni dell’alleato “sovranista” di Salvini, Kurz, che da presidente dell’Austria preme per la bocciatura del DEF e ha dichiarato la propria indisponibilità nel “pagare i debiti degli altri”.

Nonostante i limiti della manovra il governò vedrà, e sta vedendo, crescere i propri consensi. È ovvio che dopo decenni di governi che hanno portato avanti politiche di lacrime e sangue, anche delle misure parziali, ben lontane dalle promesse elettorali, faranno gola a milioni di persone che hanno sofferto le crude conseguenze della crisi capitalista. Proprio per questo la sinistra deve costruire un’opposizione all’insieme delle politiche di governo, e non inseguire il suo populismo o il suo scontro con l’Unione Europea – come fanno settori della sinistra che rivendicano l’uscita dall’euro. Contrapporre alle concessioni populiste del governo una piattaforma autonoma del movimento operaio che rivendichi un salario ai disoccupati, la riduzione dell’orario e le pensioni retributive a 60 anni o 35 anni di contributi; rivendicare la distruzione dell’attuale Unione Europea, non per ritornare all’Italia della lira, ma per una Europa dei lavoratori è il miglior modo per costruire un’alternativa politica al governo. Subordinarsi al PD o alle sue scorie (come sta facendo Rifondazione rispetto a Liberi ed Uguali) o fare delle critiche parziali al governo, come chi saluta positivamente il DEF perché non rispetta i vincoli europei sul deficit, criticando solo qualche aspetto minore, condanna la sinistra alla marginalità politica per i prossimi anni.

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