PERÙ: “CHE SE NE VADANO TUTTI!”

peruDi Jorge Altamira

 

Il Presidente del Perù, Pedro Pablo Kuczynski, conosciuto anche come PPK, è caduto non solo a seguito di accuse di tangenti che ha ricevuto da Odebrecht, cosa già nota in Perù quando fu eletto nel 2016. Kuczynski è stato lo zar dell’Economia in diversi governi precedenti e il “manager” obbligato per il quale doveva passare la società di costruzioni brasiliana. La corruzione del Lava Jato1 riguarda i tre governi che hanno preceduto quello attuale – presieduti da Alan García, Alejandro Toledo, che si è rifugiato negli Stati Uniti, e i coniugi Humala, che sono in prigione. Per evitare un processo politico al Congresso, per queste accuse, PPK ha negoziato i voti di una frazione del partito Fujimorista Forza Popolare, in cambio di un indulto ad Alberto Fujimori2. Questa bufera ha causato una divisione di FP tra i fratelli Kenji (che hanno accettato l’indulto) e Keiko Fujimori e, soprattutto, una svolta nell’opinione pubblica del Perù contro gli uni e gli altri. Kuczynski ha ripetuto l’operazione prima di una seconda minaccia di “impeachment”, offrendo prebende al gruppo di Kenji Fujimori, che è stato filmato da una telecamera nascosta installata su richiesta di sua sorella. Questo episodio ha accelerato le dimissioni irrevocabili di PPK, che giustificava con le ragioni della governabilità. In effetti, le dimissioni sono state accolte da un aumento della Borsa di Lima, con l’aspettativa che l’assunzione del governo da parte del vicepresidente, Martin Vizcarra, avrebbe riportato il Perù alla “normalità”.

La vittoria elettorale di PPK nel 2016, in un ballottaggio, è stata vista con sospetto dal ‘cerchio rosso’ che gestiste l’economia e la politica del Perù, per le stesse ragioni che una frazione della borghesia ha sostenuto contro Macri3: vale a dire, una debolezza politica nell’attuare gli aggiustamenti e le controriforme del lavoro. È che sebbene PPK abbia vinto al secondo turno, il Fujimorismo ha preso la maggioranza del Congresso alle elezioni del parlamento contemporanee al prima turno elettorale. Quello che in Argentina è ancora un capitolo aperto in Perù è stato chiuso, anche se Macri ha fatto propria gran parte della strategia del ‘cerchio rosso’, e ha fatto un patto con il pejotismo4 nelle province, nel Congresso e nella Magistratura. L’uscita di scena del governo del Martinez de Hoz5 – o del Cavallo6 – del Perù, è una battuta d’arresto per la borghesia, ma allo stesso tempo una soluzione gestita da sé stessa.

La sceneggiata per recuperare la “normalità” politica prevede l’assunzione dei poteri da parte del vicepresidente, Martín Vizcarra, per completare i tre anni di mandato, con l’aggiunta di un governo di “unità nazionale”. La soluzione non sembra, tuttavia, così semplice, perché lo stesso Vizcarra è stato accusato di corruzione, sotto il governo di PPK, nella costruzione di un aeroporto a Cuzco, che lo ha declassato dal Ministero dei Trasporti a un’ambasciata in Canada. D’altra parte, nessun osservatore ammette la fattibilità di una coalizione con Fujimori o contro di lui. Se Vizcarra naufraga nel tentativo, sarà necessario convocare le elezioni generali. È esattamente ciò che sostiene la popolazione, l’82 percento, secondo i sondaggi. Il quotidiano El Comercio dice che metà del paese vuole “che se ne vadano tutti”.

L’impraticabilità di un governo Vizcarra è rafforzata dalla crisi che sta colpendo Fuerza Popular, che si manifesta nella lotta tra i fratelli Fujimori. L’altra crisi colpisce la sinistra, il Fronte Ampio, che politicamente ha difeso PPK, durante il suo mandato, con il pretesto di “difendere la democrazia” contro il Fujimorismo. La scissione Nuovo Perù si è astenuto nella votazione dello scorso dicembre nel procedere per mettere sotto accusa Kuczynski, sostenendo che ‘non si doveva fare il gioco’ di Fujimori, per ricevere immediatamente l’indulto di Alberto Fujimori da parte di Kuczynski. Dalla fine del governo militare, negli anni ’70, da molto tempo, la sinistra democratizzante del Perù è una nave alla deriva. Nell’attuale crisi, non può giocare un ruolo diverso da quello di distrarre, confondere e disorganizzare le masse.

L’uscita di scena di PKK fa parte di una ingovernabilità sistemica, che ha visto cadere i governi in America Latina come foglie in autunno. Colpi, dimissioni, processi politici. La crisi capitalista rende impraticabile la sopravvivenza dei governi eletti. L’ultima risorsa di PPK per salvare il suo governo è stata adoperata nella politica internazionale, non in quella nazionale, quando ha annunciato il veto alla presenza del Venezuela nell’incontro del gruppo di Lima, il prossimo aprile. Maduro, macchiato dalle bustarelle di Odebrecht come i presidenti peruviani, si è affrettato a sfruttare la notizia. Ora dobbiamo vedere come continua l’operazione, perché Trump, che aveva accettato l’invito all’incontro, da parte di PPK, affronta un deserto politico. Un bilancio degli episodi di crollo politico dei governi della regione dovrebbe evidenziare, tuttavia, che il romanzo della finta democrazia non si ferma e aggiunge nuovi capitoli. Nonostante l’enorme sforzo delle masse nel combattere le soluzioni reazionarie a queste crisi, come le grandi mobilitazioni di massa in Honduras e Brasile, manca ancora una propria agenda, che consenta di sviluppare un intervento politicamente indipendente.

È necessario sviluppare partiti operai indipendenti e rivoluzionari.

 

Note

1- In italiano “Autolavaggio”, un’operazione della polizia federale brasiliana (e della magistratura) che coinvolge il gigante delle costruzioni Odebrecht e i vertici della politica brasiliana e latinoamericana

2- Ex presidente peruviano, condannato per violazione dei diritti umani, omicidi, violenze, rapimenti e torture, ordinate durante la guerra civile contro la formazione guerrigliera maoista Sendero Luminoso

3- Attuale presidente argentino

4- Partido justicialista, partito giustizialista (peronista)

5- Economista e ministro dell’economia durante la dittatura

6- Economista e ministro dell’economia sotto le presidenze di Menem e De la Rua

 

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